Youth - La giovinezza |
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Un film di Paolo Sorrentino.
Con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano.
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Titolo originale Youth.
Drammatico,
Ratings: Kids+13,
durata 118 min.
- Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna 2015.
- Medusa
uscita mercoledì 20 maggio 2015.
MYMONETRO
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De senectute
di Omero SalaFeedback: 2202 | altri commenti e recensioni di Omero Sala |
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venerdì 26 giugno 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
De senectute doveva intitolarsi questo film, e non La giovinezza, che – incarnata nei folgoranti glutei di miss universo – sfila solo per un attimo (come Anita nel fontanone di Trevi) davanti agli occhi miopi di Michael Caine (92 anni suonati) e a quelli da topo di Harvey Keitel (che assomiglia un po’ a Polanski e di anni ne ha solo 76). Dopo Moretti (Mia madre) anche Sorrentino riflette sulla dissoluzione della vecchiaia e della memoria: il primo, che forse la sente incombente, cincischia nevrotico ed vanitoso; il secondo, che la prefigura lontana, filosofeggia desolato e fellineggia come al solito. Ma in ambedue c’è qualcosa di fasullo, di artificioso: viene da pensare che sia un vizio tutto italiano, degli autori italiani, quello di girare film per esibirsi e non per far vivere emozioni, di mandare messaggi al milieu degli intellettuali snob che si atteggiano a cinefili, di solleticare la corteccia cerebrale dei critici, di offrire argomenti ai giornalisti della pagina degli spettacoli, far litigare le giurie dei festival e fomentare le polemiche che fanno bene al botteghino. Sorrentino, fra i cosiddetti grandi, non è il primo a cedere a questi impulsi: troppi registi (ma anche molti artisti, scrittori, compositori,…), dopo aver dato l’anima e essersi espressi in alcune prime opere geniali (ascoltando la creatività compressa che “ditta dentro”), una volta assaggiato il meritato successo, si sono lasciati gradualmente sedurre dalle sirene della presunzione sino a farsi fagocitare dagli ingranaggi della produzione per partorire quello che vuole il mercato (“internazionale” of course), quello che i consumatori si attendono, quello che la carriera impone. Youth non si sottrae a questo meccanismo: per un’oretta svolazza a mezz’aria con quella dose di confusione che te lo fa sembrare alla ricerca disorientata di risposte sulla vita e sull’amore, sulla paternità e sull’arte, sulla dissoluzione dei legami e sull’inquietudine di chi sente vicina la fine. Poi arranca disorganico, delude le promesse e precipita pesantemente sotto il peso della sua esagerata artificiosità, eccessivo nei colori, sentenzioso nei dialoghi (che sono sostanzialmente un montaggio di monologhi, un’antologia dell’aforismo), triste nella sua consapevole e colpevole immodestia. Volendo parere un grande film, riesce a essere solo penosamente grosso, ingombrante, opulento, ponderoso, indigesto come un piatto con troppi ingredienti. Volendo essere antinarrativo, riesce a essere confuso, soprattutto per l’eccessivo numero di sequenze oniriche (che, vabbè, sono inspiegabili per loro natura, ma sono tenute ad essere significative e organiche alla sia pur articolata complessità del discorso). Volendo essere denso, diventa criptico per la fissazione nell’uso di messaggi subliminali (le simmetrie minimaliste degli interni, le esplosioni primaverili degli esterni, l’onnipresenza dell’acqua) e per le disseminate metafore (acuta quella della felicità, lontanissima per i vecchi, illusoriamente a portata di mano per i giovani, irraggiungibile per tutti).
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