Sia chiaro, far bene alle prese con il supereroe più vecchio e meno malleabile della storia è stato compito arduo e spesso impossibile per molti. Soprattutto al cinema: per un Donner che ce l'ha fatta, tanti invece hanno fallito.
Per questo la task force formata da Christopher Nolan alla supervisione dell'intero progetto artistico, David S. Goyer alla sceneggiatura e Zack Snyder dietro la macchina da presa sembrava, sinceramente, a prova di bomba. Anzi, di kryptonite.
E invece no: al di là dell'ottima, scontata risposta al botteghino, il reboot, la rivisitazione di Superman delude. E lo fa dopo un inizio discreto, in cui la comparsata di Marlon Brando del primissimo capitolo nei panni del padre dell'uomo d'acciaio (con un cachet record: 3 milioni di euro per pochissimi minuti) diventa un ampio prologo che consente a Russell Crowe di impersonare un ruolo strutturato e che farà da deus ex machina fino alla fine della pellicola. E arrivati sulla terra i genitori adottivi Diane Lane e, soprattutto, Kevin Costner, se la cavano ottimamente. Tutto bene, quindi, fino a che Henry Cavill, bello e sexy con la barba, banale e inespressivo senza, si mette la famosa tutina. Non più camp come un tempo, ma metallizzata e apparentemente fatta di materiale riciclato dagli pneumatici da corsa. A quel punto L'uomo d'acciaio perde l'anima senza conquistare l'azione. Gli effetti speciali, infatti, sono pochi e superati e va anche peggio con le scene di battaglia e di lotta, ripetitive e noiose. La costruzione del personaggio si interrompe e, come se non bastasse, comincia a tradire ciò che è sempre stato e che ha rappresentato. Non era stupido il Clark Kent- Kal El del compianto Reeve, lo erano semmai coloro che non riuscivano a riconoscerlo con occhiali dalla montatura improbabile. Qui Cavill, invece, ottiene in sorte un supercorpo con un cervello piccolissimo, evidentemente: Crowe e Costner si fidano così poco del figlio che preferiscono affidare ad altri i loro preziosi suggerimenti perché pensino ed agiscano al posto del figlio. E hanno ragione, lui per salvare una persona o al massimo una famiglia, contrariamente a ogni suo principio che conosciamo fin dal 1939, arriva ad uccidere, direttamente e non, migliaia di persone.
I tre moschettieri del nuovo Superman, alla fine delle due ore e più di film, sembrano dirci una cosa, forte e chiara: a loro il superuomo in calzamaglia non piace. Non lo amano e così lo maltrattano. Snyder non mostra né la sua indubbia capacità visiva né l'insospettabile sensibilità e profondità di Watchmen, che pure rappresentava il lato oscuro e ambiguo di questo tipo di narrazione. Nolan sembra voler costruire la nuova saga sulla falsariga del suo Batman, ma peggiorato. Di Goyer, semplicemente, ci sconcerta la superficialità e la piattezza con cui adatta la storia su carta da cui trae ispirazione.
Come insegna J.J. Abrams riscrivere, ripensare e persino capovolgere un personaggio e il suo mondo può essere cosa buona e giusta, ma non gli si deve mai mancare di rispetto. Cosa che in questo caso accade regolarmente, soprattutto nella seconda parte. E Snyder, peraltro, decide di mettere da parte vizi, vezzi e virtuosismi proprio nel film sbagliato, quello in cui delle sue acrobazie visive, spesso velleitarie, sentivamo il bisogno.
Forse non è più tempo di personaggi come Superman, granitici simboli di valori assoluti: e lo dimostra il fatto che qui si rimane attenti e partecipi solo fino a quando il piccolo Clark ha i suoi bravi superproblemi. Poi, quando persino nello sguardo arriva la consapevolezza arrogante e vuota di un essere superiore, moralmente oltre che muscolarmente, perde ogni fascino. In fondo persino Capitan America ha perso le sue certezze, qui invece sembra che Superman lasci per strada solo carisma e capacità strategiche.
Il supereroe più famoso del mondo salva il mondo da decenni. Ma ora davvero è difficile capire quale regista possa trarre in salvo lui dai suoi disastri sul grande schermo.
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