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Ultimo aggiornamento domenica 25 novembre 2018
Adattamento scritto a quattro mani da Ivo Ferreira con lo sceneggiatore Edgar Medina, da un romanzo di António Lobo Antunes.
CONSIGLIATO NÌ
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Angola, 1971. Durante la guerra coloniale un soldato portoghese scrive alla moglie incinta. Le sue missive descrivono quello che vive e quello che vede, scenari umani pieni di speranza, di scoperta e di aiuto. Lentamente però le lettere cambiano, gli effetti della guerra su ciò che vede, su chi gli sta accanto e sul soldato in primis diventano sempre più evidenti, trasfigurando ogni descrizione.
Alla base del film di Ivo Ferreira ci sono le vere lettere dal fronte dell'Angola di Antonio Lobo Antunes, pubblicato tutte insieme nel 2005. Da questo romanzo epistolare quasi a senso unico Ferreira decide di trarre non un film di finzione canonico, quanto una versione illustrata di quelle parole, un complemento e non un adattamento. Ciò che sembra guidare la mano della messa in scena è insomma il grande rispetto per il materiale di partenza e in particolare per la parola. A partire dalle lettere lette da voci fuoricampo tutto è dato, su di esse si instaurano le immagini e non viceversa, a partire da essere ogni contrasto o ogni accostamento cerca il proprio senso.
Ferreira lavora moltissimo assieme al direttore della fotografia Joao Ribeiro (già sodale di Teresa Villaverde per Transe) alla ricerca del tono visivo, mettendo in esso tutta l'energia del film e tutto ciò che può accostare al testo. L'obiettivo si capisce essere una trasposizione in bianco e nero tra il reale e il surreale, tra il sogno e la realtà, tra il fisico e il metafisico. Come nelle lettere la realtà descritta si trasforma per l'effetto della guerra su chi scrive, anche nel film le immagini passano di tono e l'ambiente si fa rarefatto, anche sfruttando le qualità metafisiche del bianco e nero. Non è quindi certo nel comparto tecnico che il film sembra mancare, semmai è nell'equilibrio tra aspirazioni e risultati raggiunti.
Pur rimanendo ben chiaro l'obiettivo di Ferreira, lo stesso Letters from war mostra una totale incapacità di muoversi dalle più banali associazioni. Se il suo fine è non solo nobile, ma anche complesso ed intellettualmente stimolante, la maniera in cui compie questo percorso è quanto di meno elaborato e concettualmente audace si potesse sperare. Le lettere di Antonio Lobo Antunes (o meglio, quella parte di esse lette nel film) hanno spesso delle qualità naive, e in esso sta anche il loro fascino, dall'altra parte il film non può permettersi il lusso di abbandonarsi alle ruffianerie, perché se Antunes parla in prima persona il cineasta lo fa elaborando intellettualmente l'esperienza di un altro. Un conto è uno sguardo naive su eventi vissuti, un altro è una riflessione naive sulla narrazione di quegli eventi.
Inutile dire che da questo materiale, da questi presupposti e dalla maestria tecnica messa in campo era lecito attendersi di più di un lungo e faticoso viaggio nelle ambientazioni, negli scenari e nelle associazioni mentali così poco stimolanti e che possono suonare soddisfacenti forse solo per chi ama arriva avere una conferma di ciò che già pensa invece di una sfida alle proprie convinzioni.