Anno | 2014 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Azerbaidzhan |
Durata | 105 minuti |
Regia di | Elchin Musaoglu |
Attori | Fatemah Motamed-Aria, Vidadi Aliyev, Sabir Mamadov, Farhad Israfilov . |
MYmonetro | 3,09 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento mercoledì 7 giugno 2017
Dopo aver perso il marito e il suo unico figlio, Nabat deve sopravvivere in un villaggio ormai abbandonato da tutti.
CONSIGLIATO SÌ
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Nabat vive in una casetta sperduta collegata al villaggio azero più vicino da un lungo sentiero di montagna che la donna percorre ogni giorno per andare a vendere il latte della sua unica mucca. Nonostante l'età avanzata, fa tutto da sola: lava, stira, cucina, munge la mucca, raccoglie la legna e le patate, innaffia la tomba del figlio scomparso in guerra, accudisce il marito malato. Poco lontano si sentono, a scadenze irregolari, gli spari di una guerra senza fine, e i latrati di un lupo che si aggira intorno alla casa.
L'esistenza già ridotta all'osso della donna diventa completamente solitaria dopo la morte del marito e lo sgombero del villaggio, abbandonato dai suoi abitanti per obbedire a logiche di conquista. Da quel momento inizia la resistenza umana di Nabat, che non smette di accendere le luci nelle case e nella moschea deserte, con la disperata volontà di essere presenza e testimonianza, nel luogo in cui sono seppelliti i suoi cari.
Nabat è una storia minima ma di grande impatto visivo ed emotivo, sia per la magnifica interpretazione dell'attrice iraniana Fatemeh Motamed Arya nei panni della protagonista, eroico esempio di umana dignità, che per la cinematografia che riesce a trovare pathos e poesia nelle inquadrature del villaggio fantasma, della frutta abbandonata, dei panni stesi, della casetta ordinata di Nabat, senza mai scivolare nell'estetica pauperistica o nel compiacimento formale.
Nabat è una potente parabola sulla resilienza femminile, sulla capacità di cura delle donne, e sull'ostinazione a non cedere alla barbarie. Il regista azero Elchin Musaoglu fa della povertà di mezzi la sua forza, mantiene un tono austero e rigoroso e, come Nabat, non cede alla desolazione nel momento stesso in cui la racconta, nitidamente, per immagini.
Una donna non più giovane, Nabat, conduce un’esistenza durissima assieme al marito malato in una casa in cima al mondo: una minuscola abitazione nei pressi di un villaggio di montagna dell’Azerbaigian. Il villaggio è stato abbandonato a causa della guerra civile che inesorabilmente dilaga e che le ha già imposto il sacrificio della perdita di un figlio.
Nabat vive in una casetta sperduta collegata al villaggio azero più vicino da un lungo sentiero di montagna che la donna percorre ogni giorno per andare a vendere il latte della sua unica mucca. Nonostante l'età avanzata, fa tutto da sola: lava, stira, cucina, munge la mucca, raccoglie la legna e le patate, innaffia la tomba del figlio scomparso in guerra, accudisce il marito malato. Poco lontano si sentono, a scadenze irregolari, gli spari di una guerra senza fine, e i latrati di un lupo che si aggira intorno alla casa.
L'esistenza già ridotta all'osso della donna diventa completamente solitaria dopo la morte del marito e lo sgombero del villaggio, abbandonato dai suoi abitanti per obbedire a logiche di conquista. Da quel momento inizia la resistenza umana di Nabat, che non smette di accendere le luci nelle case e nella moschea deserte, con la disperata volontà di essere presenza e testimonianza, nel luogo in cui sono seppelliti i suoi cari.
Nabat è una storia minima ma di grande impatto visivo ed emotivo, sia per la magnifica interpretazione dell'attrice iraniana Fatemeh Motamed Arya nei panni della protagonista, eroico esempio di umana dignità, che per la cinematografia che riesce a trovare pathos e poesia nelle inquadrature del villaggio fantasma, della frutta abbandonata, dei panni stesi, della casetta ordinata di Nabat, senza mai scivolare nell'estetica pauperistica o nel compiacimento formale.
Nabat è una potente parabola sulla resilienza femminile, sulla capacità di cura delle donne, e sull'ostinazione a non cedere alla barbarie. Il regista azero Elchin Musaoglu fa della povertà di mezzi la sua forza, mantiene un tono austero e rigoroso e, come Nabat, non cede alla desolazione nel momento stesso in cui la racconta, nitidamente, per immagini.