Ebbing, Missouri, è uno di quei luoghi dell’America profonda dove la polizia non sempre ricorda che strane leggi recenti le vietano di pestare gente di colore e gay – o finocchi come si dice normalmente da queste parti.
In questo bel posto la giovanissima Angela viene stuprata e bruciata; per la precisione struprata e bruciata viva più o meno contemporaneamente. Dopo quasi un anno, Mildred affitta tre cartelloni pubblicitari lungo la strada in cui la figlia è stata trucidata. Neri caratteri cubitali su fondo rosso espongono tre semplici osservazioni: "Stuprata mentre stava morendo", "E ancora nessun arresto", "Come mai, sceriffo Willoughby?"
Lo sceriffo Willoughby, molto stimato dalla comunità, ha i giorni contati dal cancro. Mildred si trova quasi tutti contro: la polizia, l’ex marito violento che adesso fa coppia con una ventenne, il figlio Robbie, persino il dentista che lei spedisce preventivamente all’ospedale. Tra chi si affretta a farle la predica, non manca il buon sacerdote cattolico, messo a mal partito ricordandogli i traffici tra preti e chierichetti.
Willoughby, dopo un’ultima giornata di vacanza con moglie e figlie, si suicida per risparmiare alla famiglia e a se stesso l’agonia. Lascerà tre lettere. Alla moglie; a Mildred scagionandola da ogni responsabilità morale e invitandola a continuare; a Dixon, un giovane poliziotto alcolizzato e razzista, più degli altri ostile a Mildred.
Premio Oscar 2018 per la migliore attrice protagonista (Frances McDormand / Mildred) e il miglior attore non protagonista (Sam Rockwell / Dixon), “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è un film potente e significativo; violento nelle parole e nell’azione, in perfetto equilibrio col suo soggetto. Altri tre o quattro Oscar sarebbero stati doverosi e normali.
Martin McDonagh scrive e dirige una storia essenziale attingendo alla tradizione tragica nel senso più di Euripide che di Eschilo. Forse il Cielo è vuoto e non c’è fede, ragione o legge che possa riempire la Terra. Mentre Mildred rinnova i fiori sotto i manifesti, si avvicina una bellissima cerbiatta e lei le parla: “Ancora nessun arresto? Come mai? Perché Dio non c’è, il mondo è vuoto e non importa ciò che facciamo? Spero proprio di no.” Poi chiede all’animale se sia la reincarnazione di Angela. “ No – conclude – Lei e’ stata uccisa. Ora è morta per sempre.”
Eppure, il drammatico disincanto che attraversa “Tre manifesti a Ebbing” non cede alla disperazione: anche nei passaggi peggiori un’occhiata ironica, una battuta – magari amara –, o una situazione da commedia, consentono di continuare, come se la struttura del dolore galleggiasse su una leggerezza sottostante.
A Ebbing il classico conflitto tra legge e giustizia – tra codice e morale, tra diritto e obblighi del sangue – esclude in partenza un elemento: la legge. Nessun colpevole per Angela, Dixon maltratta i prigionieri e quasi uccide Red, il marito di Mildred ha sempre abusato di lei e brucia i manifesti, la protagonista incendia il posto di polizia, avvengono altri crimini minori, e tutto quasi senza conseguenze. E’ facilmente riconoscibile l’America anarchica della frontiera, ma il riferimento universale riguarda gl’istinti arcaici dell’umanità, ovunque in ogni tempo.
Mildred col suo senso di colpa nei confronti di Angela e la sete di giustizia/vendetta è una figura tragica a tuttotondo. Scorretta e indifferente alle regole, nutre odio verso i diritti (dei maschi), usa tutto e tutti per il suo scopo, compresa la malattia dello sceriffo.
Willoughby è responsabile della deriva e degli abusi dei suoi uomini, di cui sottovaluta la portata, e forse in parte condivide. Trova riscatto nella sua ultima giornata con la famiglia. E poi non nel suicidio, ma nell’eredità delle tre lettere.
Dixon è il personaggio che farà maggior strada verso l’equilibrio. Da bullo in divisa, da omosessuale nascosto a se stesso dietro il machismo, a uomo riflessivo e consapevole. La lettera di Willoughby sarà il suo punto di svolta.
“Tre manifesti a Ebbing” è una storia che si avvicina ad essere vera scartando l’innocenza, ma non la possibilità di essere meno colpevoli. I personaggi fanno più errori che mosse indovinate. La vita spesso non è un gioco a somma zero: tutti sono perdenti, ma ci sono tanti modi di cadere. E anche senza redenzione c’è posto per qualcosa di simile al perdono.
Nell’ultima sequenza Mildred e Dixon sono diretti in auto verso un altro Stato, per sbrigare un certo lavoro sporco, a suo modo giusto e necessario. Ne discutono ancora e decideranno più avanti se portarlo a termine. Vicenda di passioni forti che non esclude dubbio. Finale perfetto. Come tutto il resto.
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