Seul. I Kim - padre, madre e due figli sull’orlo della miseria, alloggiati in un malsano seminterrato - riescono a farsi assumere in blocco dai ricchi Park, carpendone la fiducia e soppiantando con disonesti stratagemmi la precedente servitù.
I ricchi sono ricchi anche perché sono gentili, oppure sono gentili perché sono ricchi? si chiedono i Kim ubriacandosi sul divano dei Park durante una loro assenza. Dall’alto della scala sociale, i Park invece apprezzano l’apparente compostezza, ovvero il senso del limite, dei Kim. Limite naturalmente stabilito dai Park stessi: paritari e alla mano finché credono che i Kim stiano al loro posto. Del resto i Kim puzzano e quindi ribaltando la domanda iniziale: i poveri sono poveri anche perché puzzano, oppure puzzano perché sono poveri?
Tra questi dilemmi espressi o sottintesi, si dipana Parasite, una tragedia venata di comicità, dall’esatta meccanica e dai significati universali. La storia coreana funzionerebbe benissimo a New York, come a Milano o Roma, confermando le sperequazioni sociali come la più riuscita forma di globalizzazione. I poveri, sovrappeso, nelle loro stamberghe piene di cianfrusaglie, si abbuffano di cibo spazzatura; i ricchi in perfetta forma fisica, abitano collinari ville razionaliste dagli arredi minimalisti, facendosi servire raffinati piatti di frutta. Certe schiacciate finestre rasoterra sulla strada danno indecoroso spettacolo della peggiore umanità, mentre ampie vetrate disegnate da prestigiosi architetti si affacciano su curatissimi giardini. La stessa natura completa un fosco quadro di anti-provvidenza: il temporale che romanticamente bagna il prato inglese sulla collina, allo stesso tempo devasta strade e tuguri dei quartieri bassi. Anche l’aria, la notte e la pioggia apparentemente di tutti e per tutti, in realtà dipendono dal censo.
Il regista coreano Bong Joon-ho maneggia pure con destrezza gli stereotipi del genere. I furbi Kim sono uomini del sottosuolo, non solo nella loro casa e nella menzogna, ma nei tavoli e nei letti sotto cui la necessità degli eventi li costringe a nascondersi; un sottosuolo materiale già compiuto senza dover accedere a dostoevskiani recessi psicologici. Al contrario, i Park mostrano una stupidità essenziale, un’ottusità derivante dalla lontana posizione rispetto all’umanità in cui li ha posti il denaro; più gli adulti dei ragazzini, a indicare il pericolo di progressiva corrosione legato alla ricchezza.
Ma forse la riflessione etica più significativa di Parasite riguarda il fatto che almeno uno dei Kim (la madre Chung-sook) proviene da un decoroso passato borghese, in cui ha pure ottenuto dei successi sportivi; anche il figlio Ki-woo, prima debole ed esitante, acquista sicurezza quando ottiene dai Park un lavoro dignitoso che mette a frutto i suoi talenti. Le due opposte parabole sottolineano la naturale vulnerabilità morale di donne e uomini alle circostanze pratiche, affermando che qualsiasi discorso etico o legale in ogni società deve partire da una decente distribuzione delle risorse materiali che mitighi le inevitabili disparità di nascita, talenti naturali e fortuna. Constatazione abbastanza ovvia, ma in genere dolosamente trascurata dai decisori politici.
Dai toni leggeri e dalle minori colpe iniziali il duettare tra i Kim e i Park innescherà presto una serrata, quanto distruttiva, catena di eventi fino al fatale epilogo. L’ottimo Bong Joon-ho non nasconde le sue simpatie, né si preclude la speranza, inventando un quasi-lieto fine onirico per i Kim; ma rappresenta pure una più realistica chiusura della storia, tragica per tutti nell’unica forma di eguaglianza – la catastrofe generale – che gli uomini si sappiano dare. Il limite, una volta custodito dagli dei e sopra di loro dal fato, sfugge dalle mani dei ricchi, che nella moderna tragedia gli dei vorrebbero sostituire. La hybris, la colpa della dismisura, la pagano anche loro.
Ottima pellicola anche dal punto di vista formale. In una controllata successione di stili, la commedia iniziale vira al thriller, fino all’efferato epilogo in chiave quasi horror. Il grottesco e il feroce, che pure sono cifre della narrazione, non eccedono la misura necessaria. Notevole anche la fotografia.
Un’ultima annotazione sul titolo Parasite. I Kim lavorano, quindi, pur con le loro colpe, sarebbero parassiti solo secondo quella bizzarra mentalità che vede il povero comunque scansafatiche e scroccone, punito per questo dalla miseria. Ma forse, più significativamente, Parasite potrebbe alludere ai sempre più numerosi diseredati, privati dal cosiddetto progresso tecnologico pure dallo storico ruolo di manodopera a basso costo, verso un’abbrutita sopravvivenza fatta d’assistenza, criminalità o espedienti.
Dall’altra parte, i ricchi Park sembrano meritare pienamente l’appellativo, per la loro ristrettezza mentale e l’uso sterile della ricchezza. Simbolo di quella piccolissima parte di umanità che detiene le varie forme di potere: (ir)responsabile della cattiva distribuzione e della gratuita consumazione d’immense risorse. Sfruttatori, parassiti – loro sì – del resto dell’umanità e del pianeta.
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