Nel corso della sua ventennale carriera cinematografica, Peter Weir ha fatto ciò che tanti dei suoi protagonisti non sono riusciti a fare: è diventato parte integrante di una cultura a lui non familiare. Al centro della maggior parte dei suoi film, o almeno perifericamente in tutti loro, c'è infatti l'idea che l'estraneo cerchi (e alla fine fallisca) nel venire a patti con una cultura diversa dalla sua. Allo stesso modo, lui, nativo dell'Australia, il cui nome per tutti gli Anni Settanta era sinonimo della Settima Arte nazionale, si è inserito nel cinema americano degli Anni Ottanta e Novanta senza mai guardarsi indietro.
Ripercorrere questo viaggio, che lo ha trasformato in uno dei cineasti di successo di Hollywood, significa indagare proprio su queste collisioni tra società diverse, trovando prove sorprendentemente coerenti tra interessi tematici e visivi, nonostante i cambiamenti spazio-temporali.
Insignito delle più alte onorificenze del settore, guardare al suo cinema è "come spiare in un dimenticato universo", passando da uno sperimentalismo di ampio respiro fino a un collegamento con la dimensiona mistica, incantata o maledetta, condotta unicamente dalla propria immaginazione e senza un sovraccarico di informazioni. Nelle sue opere ha, difatti, dimostrato la capacità di rappresentare l'imminente sconvolgimento del mondo razionale da parte di forze irrazionali, che aleggiano appena oltre la vita quotidiana, tracciando parallelamente paesaggi e stranezze culturali di un Paese, proprio o nuovo, con un senso di meraviglia unico.
Impostosi sulla scena con due lungometraggi profondamente diversi, ma legati dal tema di scontro tra valori antichi e nascenti, si è poi messo in luce sulla scena internazionale con pellicole storico-politiche interpretate da Mel Gibson. Grazie poi all'attenzione ricevuta, passa al cinema hollywoodiano, firmando uno dei migliori thriller romantici mai realizzati e, ispirandosi ai suoi anni in collegio, anche un avvincente film di formazione.
Con il crescere della sua reputazione come autore drammatico, comincia a girare meno lungometraggi nel corso degli anni, arrivando a circa due titoli ogni decennio. Ottiene grande successo di critica e pubblico con titoli che rappresentano la metà delle sue produzioni della fine degli Anni Ottanta, ma che lasciano indubbiamente un segno cinematografico importantissimo, tanto da diventare dei cult. Proprio per questo, nonostante i suoi limitati contributi, Peter Weir è considerato uno dei Maestri più audaci e leggendari della Storia del Cinema.
Ritiratosi a ottant'anni con la divertente frase "Per i registi, come per i vulcani, ci sono tre fasi principali: attiva, dormiente ed estinta e io credo di aver raggiunto quest'ultima!", lascia spazio alla nuova generazione di narratori, che sono pronti a prendere il suo posto.
Lo stile e le tematiche
Dona in eredità la sua figura cardine inserita all'interno del cinema mondiale, capace di coniugare poesia visiva, tensione narrativa e profondità filosofica. In secondo luogo, una regia che è un ponte tra il cinema d'autore e quello popolare, tra il mistero dell'invisibile e la concretezza dell'esperienza umana, esplorate con un'ambiguità costituita da domande aperte, assenza di risposte facili ed evocazioni naturalistiche. Uno sguardo contemplativo che privilegia tempi dilatati, silenzi e sguardi, tutti elementi messi correttamente in fila così che la macchina da presa possa osservarli, più che spiegarli.
Mai invadente, Peter Weir concepisce ogni inquadratura come pensata per evocare un'emozione o un'idea, spesso coadiuvata da un uso simbolico dello spazio, che sfrutta ambienti naturali o artificiali come specchi dell'interiorità dei personaggi, chiedendo ai suoi attori di lavorare per sottrazione, contenendo le proprie interpretazioni, seppur lasciandole cariche di forti tensioni emotive.
Tra impressionismo (scuola di Heidelberg) e realismo magico, sfrutta un montaggio ipnotico, che alterna ritmo lento e improvvise accelerazioni emotive, creando un certo senso di sospensione, quasi uno stato di trance, accompagnato solitamente con una colonna sonora minimale che amplifichi l'inquietudine e la meraviglia. Così facendo, i suoi film vivono sul margine tra sogno e realtà, tra civiltà e natura, tra ordine e caos, ridefinendo non solo il cinema australiano (che proprio grazie a lui è stato portato all'attenzione internazionale), ma anche supportando la cosiddetta Australian New Wave, introdotta con la sua energia spirituale e trascendentale nel cinema mainstream.
Anticipatore del cinema postmoderno, ha anche firmato opere profetiche sulla realtà mediatica e la sorveglianza che ne deriva, ben prima dell'avvento dei social network, influenzando con queste e altre meditazioni autori come Christoper Nolan e Denis Villeneuve, affascinati da una filmografia che è un insieme di archetipi culturali e da un cinema che può essere profondo senza essere elitario.
In definitiva, ergendosi come alchimista trasfiguratore della realtà, come un innestatore di un senso di spaesamento che disarma lo spettatore, Peter Weir è il regista dell'alterità per eccellenza, il costruttore di racconti dove l'elemento remoto, sconosciuto, a volte persino primitivo, non è solo lo sfondo, ma l'agente perturbante che disarticola certezze, linguaggi e ideologie.
La sua filmografia rappresenta una geografia poetica della frizione fra tensioni costanti, spesso feroci e non componibili, vissute dall'individuo e dall'ambiente in cui si immerge, opponendosi alla visione razionale, occidentale, strutturata del mondo e alla forza bruta e vitale dell'incontrollabile. Un conflitto, estetico ma anche epistemologico, che si manifesta come ferita simbolica nei protagonisti: segno di un trauma culturale che è insieme iniziazione e dannazione. A riprova di questo, per accedere a nuove forme di sapere, i suoi personaggi devono prima perdere qualcosa di sé, che sia l'identità, l'innocenza o l'appartenenza sociale. Ma la conoscenza, nel cinema di Weir, non è mai redentrice: è piuttosto un varco verso un altrove minaccioso, dove la civiltà per come la conosciamo si sgretola e la natura non consola.
È in questa dialettica, così potente e irrisolvibile, che emerge la figura di un nuovo Prometeo moderno: colui che, mosso da un desiderio quasi sacrale, va contro gli Dei attraversando i limiti e ne paga il prezzo più alto. Un eroe titanico, che crede di portare luce e libertà, trovando invece oscurità, disordine, talvolta follia. Eppure, nella sua disfatta, si cela forse la più autentica forma di consapevolezza.
Peter Weir, del resto, non offre soluzioni, né riconciliazioni. Il suo cinema è un cinema liminale, sospeso ai bordi dell'abisso, che rifiuta le semplificazioni e abbraccia l'enigma. E proprio per questo continua a parlarci, con forza inquieta, dell'impossibilità di conciliare il sogno utopico con la realtà selvaggia del mondo.
Una filmografia che non consola, ma interroga. Non chiude cerchi, ma li apre. Non riconduce l'uomo all'ordine, ma lo spinge, ancora una volta, ai margini dell'incomprensibile.
Studi e primi lavori
Peter Weir nasce nel 1944 a Sydney, figlio di una casalinga e di un agente immobiliare. Iscritto al The Scots College e alla Vaucluse Boys High School, frequenta i corsi di Arte e Giurisprudenza alla University of Sydney, trovando molti studenti coi quali condividere la sua passione per il cinema (uno di questi è Phillip Noyce, nonché i futuri membri del collettivo cinematografico Ubu Films).
Interrotti gli studi a metà degli Anni Sessanta, trova lavoro nell'emittente televisiva ANT-7, dove lavora come assistente produttore per il programma satirico-comico "The Mavis Bramston Show".
I cortometraggi
Durante questo periodo, lavora ai suoi primi cortometraggi sperimentali.
Titoli come The Life and Flight of Rev. Buck Shotte (del 1968, nel quale recita proprio nei panni del Reverendo Buck Shotte), Stirring the Pool (1970), l'episodio "Michael" contenuto in Three to go (1971, composto da altri due corti firmati da Brian Hannant e Oliver Howes), Homesdale (1971), Incredible Floridas (1972) e Whatever Happened to Green Valley? (1974) sono fondamentali per comprendere la nascita e l'evoluzione del suo stile registico. Non sono solo esercizi di apprendistato, ma veri e propri laboratori di linguaggio visivo e tematico, che anticipano molte delle ossessioni e delle poetiche che esploderanno nei suoi film più celebri. Sviluppando, infatti, un gusto per le atmosfere sospese e l'uso simbolico degli spazi, esplorerà il grottesco e il surreale inserendoli all'interno del suo DNA creativo.
I film degli esordi
Di lì a poco, nel 1974, firma anche il suo primo lungometraggio con Le macchine che distrussero Parigi, con una sceneggiatura scritta da lui stesso e da Piers Davies, all'interno della quale due fratelli, George e Arthur, arrivano a Parigi, una piccola, isolata e claustrofobica città collinare della provincia australiana quasi fuori dal tempo, che però vive di incidenti stradali, arrivando a sviluppare un vero e proprio ricco commercio.
Un'opera di esordio che abbraccia l'horror, la satira sociale e la black comedy, nella quale si intravedono molte delle caratteristiche che definiranno il suo uso dell'assurdo per riflettere su temi socio-culturali, creando atmosfere stranianti e con un tono volutamente instabile, tendente al macabro. Le auto stesse, modificate dai giovani della cittadina, sono creature mostruose (anticipatrici dell'estetica della saga Mad Max), simboli di una modernità deformata, di un progresso costituito da strumenti di morte e di controllo, e sono esaltate da una regia che sceglie inquadrature eccentriche e composizioni volutamente disturbanti, per limitarle a un microcosmo chiuso, dove la normalità è solo una facciata per la follia collettiva, e per insinuare la sfiducia verso la tecnologia come forza civilizzante.
Più delicato, ma non meno disturbante sarà Picnic ad Hanging Rock (1975).
È il 14 febbraio del 1900, giorno della festa di San Valentino, e le allieve dell'aristocratico collegio Appleyard si recano a fare una scampagnata ai piedi del gruppo roccioso di Hanging Rock, geologicamente interessante e dalla fisionomia misteriosa. Tutto va per il meglio e la gita si rivela piacevole, almeno fino a quando una delle loro insegnanti e tre alunne scompaiono nel nulla, dopo essersi avventurate in esplorazione proprio dentro Hanging Rock.
L'opera segna il punto di svolta che ha fatto uscire il cinema australiano dall'isolamento, portandolo sotto i riflettori internazionali. Con la sua struttura elusiva, Weir crea un universo sospeso tra realtà e suggestione, dove simboli ambigui diventano catalizzatori emotivi e intellettivi. Il film sfiora disarmonie viscerali, spinte dall'allontanamento da sistemi educativi oppressivi, dal desiderio di libertà contro strutture morali arcaiche, dall'insofferenza verso un ordine sociale fondato su apparenze e diseguaglianze, ma più che giudicare, Picnic ad Hanging Rock evoca, alludendo che dietro l'apparente idillio si celino fratture esistenziali e collettive ancora oggi irrisolte. Insomma, non il racconto di una storia, ma la consegna di un enigma.
Lavorando poi con Petru Popescu e Tony Morphett, scrive e poi realizza il suo terzo film: L'ultima onda nel 1977, storia di un tranquillo avvocato di Sydney tutto casa e lavoro, che prende la difesa di un gruppo di aborigeni accusati di aver ucciso un loro compagno. Da quel momento, cominceranno a verificarsi strani fatti inspiegabili (piogge a ciel sereno di rane, grandinate con chicchi colossali e sogni che gli danno l'impressione di aver già vissuto in un'altra epoca), suggerendogli infine di essere un mulkurul, un essere mistico che compare ciclicamente sulla Terra per annunciare la fine di un'era e l'inizio di un'altra, dopo una immane catastrofe.
Siamo di fronte a un altro affascinante enigma in un'opera che fonde thriller metafisico, spiritualità aborigena e inquietudine apocalittica. Considerato uno dei capolavori del cinema australiano, L'ultima onda incarna in pieno l'essenza di Weir tra i misteri dell'invisibile e l'idea che la realtà sia solo una superficie dietro presagi cosmici, anche in un ambiente urbano come quello di Sydney. L'uomo moderno (qui incarnato da Richard Chamberlain) è diventato incapace di accettare e comprendere il sacro (custodito da David Gulpilil) e il cineasta usa ancora una volta il suo stile per evocarlo, ma non per spiegarlo, attraverso movimenti lenti della camera e primi piani su volti silenziosi, infondendo un senso di attesa, sostenuto da suoni della natura costanti e opprimenti (nonché da una minimale colonna sonora firmata da Charles Wain).
Viene così consolidata la reputazione di Weir come autore capace di portare il cinema australiano oltre i suoi confini, con un linguaggio universale radicato nella propria terra, dove ogni elemento ha un significato nascosto, trattando con rispetto le profonde credenze aborigene, senza esotizzarle o ridurle a folklore.
Il primo capolavoro
Un cambio di rotta avviene nel 1981, quando realizza lo storico Gli anni spezzati, nel quale decide di raccontare una tragica pagina della storia nazionale australiana, consumata sulle rocce di Gallipoli, in un assalto comandato nel nome del Re e dell'Impero dell'Inghilterra. Soldati giovanissimi come carne da macello.
Chiusa la parentesi magico realista, Peter Weir si tuffa completamente nudo nelle acque oceaniche della Storia e, più che un resoconto antimilitarista, offre un titolo che si configura come un itinerario romanzesco, costellato di spostamenti, esperienze formative e legami tra giovani uomini. Dimostrando una sensibilità particolare nel trattare con calore i suoi protagonisti e nel restituire l'atmosfera di un tempo perduto, l'autore impasta nostalgia e dignità, distinguendo questa pellicola dalle altre anche per la sua ampiezza narrativa, per una più solare eleganza visiva e per la naturalezza con cui gli interpreti (in particolare Mel Gibson e l'intenso Mark Lee) danno corpo a personaggi sospesi tra l'incoscienza calante e la consapevolezza crescente. Se in Picnic ad Hanging Rock erano le studentesse dell'Appleyard a far emergere l'interesse del regista per l'universo fragile della giovinezza, qui son un gruppo di ragazzi a essere fatalmente condannati alla una precoce sparizione nelle durezze delle crudeli intercapedini dell'esistenza, con un impatto emotivo che conclude, ma anche inizia (forse è proprio Peter Weir il mulkurul del suo stesso cinema) un nuovo percorso poetico, anticipando sfumature contemplative dei film che verranno girati in un'altra terra, in un altro continente apparentemente lontano, ma sul quale si ricamerà ugualmente un'unica grande meditazione sul disincanto.
Nel 1982, arriva il suo primo capolavoro: Un anno vissuto pericolosamente, tratto dall'omonimo romanzo di C.J. Kock, all'interno del quale un giovane giornalista australiano del 1965 è inviato in missione a Giakarta, dove il governo del Presidente Sukarno, fondatore di un partito nazionalista, sta vacillando. Alla ricerca dello scoop socio-politico che potrebbe renderlo celebre, trova amicizia e amore e si chiede a quale prezzo sia disposto a sacrificare entrambi.
In perfetto equilibrio tra cinema d'autore, impegno politico e tensione emotiva e con una regia che fonde introspezione e avventura in modo magistrale, Weir utilizza uno stile "atmosferico", costruendo un mondo indonesiano sensoriale e opprimente, dove il caldo, le piogge e il caos politico diventano parte integrante di una narrazione potentissima. Nell'ambiguità morale del protagonista (ancora una volta Mel Gibson), nella sua ambizione, ma non nel suo eroismo, troviamo la complessità di un risveglio di coscienza e di umanità, mosso da desideri contrastanti, ritratti dalla bellissima fotografia di Russell Boyd e ritmati dalla colonna sonora di Maurice Jarre, che amplificano estetismi e il senso di pericolo.
Lo scontro tra Occidente e Oriente, il tema del colonialismo culturale, della superficialità dell'informazione nostrana e il forte divario tra chi osserva e chi vive la crisi, tra chi sceglie carriera o responsabilità morale, sono tutti elementi centrali e contaminanti che non solo hanno ricevuto elogi, ma influenzeranno il modo in cui il cinema racconterà i contesti geopolitici complessi, anticipando titoli come The Constant Gardener e Blood Diamond.
Il periodo americano e la prima candidatura all'Oscar
A questo punto, Hollywood lo invita a unirsi alle fila di registi che lavorano all'ombra delle Hills e lui approfitta immediatamente dell'offerta, ma con tempi e modi suoi e non senza le prime incredibili soddisfazioni.
Nel 1985, infatti, viene candidato all'Oscar per la miglior regia grazie a Witness - Il testimone, adattamento di un racconto di Earl e Pamela Wallace e di William Kelley, nel quale un bambino, appartenente alla comunità degli Amish della Pennsylvania, si trova suo malgrado a essere testimone di un barbaro delitto. Scoperto dall'assassino, deve quindi essere protetto da un agente di polizia, che si infiltrerà nella comunità Amish di appartenenza per scongiurare un'eventuale eliminazione e non senza legarsi sentimentalmente alla vedova, madre del piccolo.
Tra i polizieschi degli Anni Ottanta, Witness è quello che più si distingue per l'inedito contesto in cui si svolge, incastonato in una comunità appartata e arcaica. Con un'ambientazione così inconsueta, ha attorno un'aura quasi etnografica, arricchita da una messa in scena curata e da una regia armoniosa, lodata per aver valorizzato ogni dettaglio visivo con eleganza a trasparenza luminosa, in uno scontro disorientante tra esistenze ancorate ad antichi valori e un mondo contemporaneo veloce e spesso violento.
All'interno di questa cornice, Weir dirige in maniera ottimale sia il giovane Lukas Haas che il protagonista Harrison Ford e riesce a rendere carismatica l'ottima Kelly McGillis, sospesi nel loro amore e in quel desiderio contemplativo, ma forse impossibile, di essere una famiglia.
L'anno dopo, arriva il sottovalutato Mosquito Coast, che è da tutti considerato una sua opera minore. Adattato dal romanzo omonimo di Paul Theroux, è il film che più di ogni altro si avvicina a una certa cinematografia herzoghiana, con la storia di un operaio dalle velleità di inventore, che si imbarca su un mercantile con la famiglia verso la Mosquito Coast, tra il Panama e il Guatemala, non potendo più sopportare il consumismo e il degrado morale ed ecologico.
Presentato come un'allegoria ambientale che oscilla tra aspirazioni visionarie al limite delle ossessioni e inevitabili disillusioni, non è sicuramente un'opera immediata né conciliatoria. Il suo nucleo complesso ruota intorno al legame tra essere umano ed ecosistema ed è illustrato attraverso una padronanza stilistica e un'autorevolezza registica, coadiuvate da un team tecnico di alto livello. L'uomo (ancora una volta Harrison Ford, ma in un ruolo fuori dagli schemi consueti della sua carriera) diventa motore propulsivo e limite drammatico del cambiamento di se stesso, regalando un tassello significativo in quei lucidi ritratti di moderne inquietudini e insanabili fratture tra l'ideale e la realtà.
La seconda candidatura all'Oscar
Sfiorerà una seconda volta l'Oscar per la miglior regia con il toccante L'attimo fuggente del 1989. Ambientato in un'accademia elitaria e conformista sulle colline del Vermont negli Anni Cinquanta, il film segue le influenze che un nuovo insegnante di materie umanistiche avrà sui suoi studenti, soprattutto nella trasmissione della passione e del senso del genere poetico, usato per sviluppare nelle loro menti e nei loro cuori uno spirito creativo rimasto imprigionato e desideroso invece di liberarsi da un destino prestabilito.
È il film più amato dal grande pubblico (fu uno dei maggiori successi commerciali del biennio '89-'90), affascinato dall'idea di un istante evanescente nella formazione di un individuo, all'interno del quale si traccia una scelta esistenziale. E di fronte alla ribellione degli studenti che declamano, in piedi e sopra i banchi della loro scuola, un frammento irripetibile di poesia libera, davanti a figure che invece rappresentano le imposizioni antiquate (la scena "Oh Capitano, mio Capitano!"), Weir acceca in un lampo lirico gli spettatori che, prima schiacciati dal peso dell'ordine costituito, si sentono sollevati nel silenzio che segue una declamazione dell'anima.
L'Academy se ne innamora e anche la critica, incuriositi dalla maniera in cui il cineasta esplora con la macchina da presa, e senza effetti eclatanti, spazi liminari con grazia e forza, tratteggiando un tempo perduto che, per molti, rappresenta una sola enfatica stagione della vita. Difficilmente, si potrà trovare una più struggente celebrazione della parola, del pensiero indipendente, della bellezza effimera del divenire.
La terza candidatura all'Oscar
Nel 1990, conquista una nuova nomination agli Oscar, ma stavolta in una categoria del tutto nuova, quella della migliore sceneggiatura originale, firmando lo script di Green Card - Matrimonio di convenienza, che poi dirigerà.
La storia di un corpulento cittadino francese che, per lavorare negli States, ha bisogno della Green Card, e di una entusiasta botanica newyorkese, che ha trovato un appartamento a Manhattan con tanto di serra, ma che può essere affittato solo a una coppia di sposi, piace al pubblico e alla critica per il divertente sotterfugio di organizzare un matrimonio di convenienza per gli interessi di entrambi. Matrimonio che ovviamente causerà terremoti non indifferenti nei loro giorni futuri, tra romantiche crisi e indagini da parte delle autorità dell'Ufficio Immigrazione.
Qui, Peter Weir dimostra da subito dimestichezza con un genera mai toccato prima e si muove con leggerezza nel registro della commedia romantica. Con mano sicura e stile personale, naviga con naturalezza tra scene minime, sottili equivoci e dinamiche affettive che crescono, confondono e poi si riaffacciano, fino a prendere il sopravvento su Gérard Depardieu e Andie Macdowell.
Lo script indubbiamente risplende per sensibilità e tocchi insoliti, coinvolgendo (ma senza forzare) e trasformando elementi prevedibili in virtù, senza rinunciare al tanto caro confronto tra mondi diversi, che qui si fa più intimo, intenso e riflessivo, anche se dal passo discreto e brillante.
Sarà invece meno sotto i riflettori Fearless - Senza paura del 1993, sul tentativo di due superstiti di liberarsi di un trauma dovuto a un comune incidente aereo. Un'opera inconsueta nel panorama hollywoodiano, che è più un viaggio interiore verso risonanze spirituali e percettive, che Weir dirige con intensità e sfidando le strutture convenzionali del dramma psicologico, seguendo i protagonisti nella loro trasformazione dal disastro ai nuovi limiti delle loro vite. Con un Jeff Bridges in stato di grazia e un approccio narrativo che ripesca simboli onirici e visioni ricorrenti, è forse il suo film meno centrato.
The Truman Show
Ma nel 1998, arriva il suo secondo capolavoro... e del tutto inaspettatamente. Quando si credeva che Weir cominciasse ad annaspare nelle mediocrità dei progetti proposti dal cinema americano, ecco che The Truman Show conquista non solo un BAFTA per la miglior regia, ma anche una candidatura all'Oscar nella stessa categoria, per aver saputo descrivere la vita di Truman Burbank, anonimo e tranquillo agente assicurativo della cittadina di Seahaven, che prende coscienza che la sua routine sta diventando troppo strana e inspiegabile, tanto da comprendere che tutto quello che vive è una bugia. Seahaven non esiste, è solo un gigantesco studio televisivo losangelino, dove Truman vive fin dalla nascita, del tutto ignaro di essere ripreso 24 ore al giorno, in mezzo ad attori che fingono di essere la sua famiglia, i suoi vicini e i suoi colleghi di lavoro.
Un racconto satirico di difficile classificazione. Ha una superficie da commedia brillante con quei suoi toni leggeri, ma è attraversata da onde drammatiche, legate alla condizione di isolamento del protagonista (un fantastico e sorprendente Jim Carrey qui in una prova di rara efficacia), inconsapevole prigioniero di un'esistenza orchestrata. Eppure, è anche una parabola fantascientifica (firmata non a caso dal genio del genere Andrew Niccol), vicinissima al nostro presente mediatico e non, una visione simbolica dell'uomo alle soglie del nuovo millennio, che si distingue per intensità narrativa e forza visiva.
Weir fa il suo con una regia lucida e sbalordisce. Porta in primo piano il labile confine tra autenticità e costruzione, crea una civiltà segnata dalla pervasività di certi contenuti televisivi e riflette con urgenza sugli effetti del controllo sociale, dell'illusione della libertà e sulle derive dell'intrattenimento totalizzante, ben prima che i reality show invadessero l'immaginario collettivo tra eccessi e stupidità mordace.
Penetrante, ironico e inquietante, segnerà per sempre la Storia del Cinema.
Gli stessi premi e la stessa candidatura, gli verranno attribuiti anche per il film in costume Master & Commander - Sfida ai confini del mare nel 2003.
Viaggiando indietro nel tempo, giungendo davanti alla costa del Brasile nell'Ottocento, Weir segue le sorti della Surprise, un vascello britannico gravemente danneggiato da un attacco di una fregata americana, che deve scegliere se tornare in porto per riparare i danni subiti e curare i feriti oppure inseguire il nemico.
Un'opera epica, che incrocia la classicità del romanzo marinaresco con la precisione del cinema storico, attraverso una ricostruzione dettagliata e rigorosa, fusa assieme all'introspezione psicologica e all'energia del genere d'avventura. Il regista usa la macchina da presa in modo misurato, ma profondo, trasformando battaglie navali e vite quotidiane in mare aperto nella più alta rappresentazione del conflitto senza tempo tra dovere e libertà, lontano da ogni retorica.
Evitando ogni estetizzazione bellica e restituendo, con autenticità visiva e onestà intellettuale, le fatiche, le solitudini e le responsabilità condivise da chi vive ai margini del mondo civile, il film è furore e umanità, pensiero e carisma, che galleggiano su crespe azzurre di ideali perduti e sublimi. Il pubblico trova però troppo ostica la pellicola, mentre la critica apprezza questa riflessione lucida sulla disciplina, sull'amicizia virile e sulla leadership intesa anche come scelta morale.
Dopo sette anni di assenza, tornerà sul grande schermo con The Way Back, ambientato nell'Unione Sovietica degli Anni Quaranta, dove sette prigionieri scappano da un gulag, per un viaggio insidioso in un territorio ostile, spinti unicamente da un rinnovato desiderio di libertà e guidati da un cieco istinto di sopravvivenza.
Tratto dal romanzo "Tra noi e la libertà" di Slavomir Rawicz, ancora infettato dal precedente slancio epico, il film mette in scena, lontani dai cliché dell'intrattenimento, il respiro contemplativo di figure umane sofferenti ma dignitose. Non mancano i paesaggi mozzafiato, la rievocazione di atmosfere da grande cinema d'avventura con qualche richiamo a David Lean, ma con uno stile di regia più interiorizzato e sobrio.
Pur non toccando le vette dei suoi capolavori precedenti, Weir chiude la sua carriera con quest'opera intensa, ancora impreziosita dalle sfumature spirituali, stavolta incastonate in un rigore quasi documentaristico, ma senza privarsi di fantasmi e tensioni etiche.
In tv
Televisivamente e nel 1979, va ricordato che Weir firmò il film tv L'uomo di stagno, sull'incontro tra una studiosa di antropologia e uno strafottente idraulico. Considerato come una delle sue opere meno riuscite, non tanto per mancanze artistiche, quanto per il suo carattere minore e circoscritto, rispetto alle sue opere più ambiziose, non è sicuramente una fiction fallimentare, quanto un prodotto più modesto, sperimentale, che divise critica e pubblico.
Fu realizzato per la televisione australiana con un budget ridotto e in tempi molto stretti e venne scritto da Weir stesso per necessità economiche, che lo spinsero a una regia minimalista e teatrale, priva di quella ricercatezza visiva tipica della sua filmografia e di una sceneggiatura dinamica e simbolica. Forse un po' pinteriana e un po' umoristicamente nera nella messa in scena di un conflitto di classe, che si consuma nell'invasione di uno spazio privato borghese.
Vita privata e l'Oscar alla carriera
Peter Weir è il marito della costumista Wendy Stites, che ha sposato nel 1966 e dalla quale ha avuto due figli, tra i quali la costumista e direttrice di produzione Ingrid Weir.
Si ritira dalla regia dopo il conferimento di un Oscar onorario nel 2023 e di un Leone d'oro alla carriera nel 2024.