Visionario regista, produttore e sceneggiatore francese, Jean-Pierre Jeunet ha diretto con Marc Caro film noti per la loro capacità di mescolare elementi di fantasia creando realtà idealizzate.
Ex animatore, le sue pellicole sono caratterizzate da un umorismo eccentrico e farsesco unito a immagini surrealiste, che sfruttano al massimo i set epici, combinando l'assurdo e il magico per operare un cambiamento nella rappresentazione degli ambienti contemporanei, con una distorsione di proporzioni, elementi quotidiani e urbani. Questo lato caratteristico del suo stile lo ha aiutato a imporsi come uno di quegli autori europei che, più di ogni altro, ha saputo scolpire un immaginario cinematografico unico, riconoscibile al primo fotogramma.
Non si limita quindi a stupire, ma rielabora il vissuto attuale, la città, la società attraverso una lente poetica, non accontentandosi di raccontare storie, ma costruendovi intorno dei mondi. E lo fa partendo da ciò che è a lui familiare (gli oggetti di tutti i giorni, gli spazi intorno ai quali si muovono i personaggi, le abitudini), per trasformarlo in qualcosa di straordinario. Ne è un esempio il quartiere di Montmartre che diventa un microcosmo incantato, dove ogni dettaglio è carico di significato, e Parigi che non è semplicemente lo sfondo di una storia d'amore, ma personaggio vivo, pulsante, che partecipa attivamente alla narrazione. E poi un condominio fatiscente che può diventare teatro di una commedia nera grottesca o un'ambientazione urbana acida e sporca che si fa complicato labirinto distopico, popolato da personaggi eccentrici e inquietanti.
Per Jeunet, l'assurdo non è mai fine a se stesso, ma è strumento per esplorare le fragilità umane, le ossessioni, i desideri in un'estetica barocca, in una fotografia satura, in inquadrature geometriche che collimano per creare un senso di meravigliosa inquietudine.
Profondamente influenzato da altre forme artistiche (il fumetto, la pubblicità, il videoclip), permette a queste contaminazioni di penetrare completamente all'interno di uno stile peculiare, che gioca con il ritmo, con il montaggio e con la scenografia per concepire a sequenze-quadro, dove nulla è lasciato al caso. Una cura per l'estetica a dir poco maniacale, davanti all'umanità dei suoi personaggi, spesso emarginati, strambi, ma tutti incredibilmente autentici.
A questo si aggiunge un approccio frammentario alla narrazione che riflette il già sunnominato interesse per le piccole cose, per i dettagli che definiscono l'individuo, quasi a volerci comunicare che la realtà non è fatta di grandi eventi, ma di minuscole schegge di vita, di gesti e sensazioni.
Quando si parla di Jeunet, quindi, si parla di un alchimista visivo, di un uomo che è in grado di trasformare il piombo della routine urbana in oro cinematografico, invitandoci a guardare il mondo con occhi diversi, a scoprire la magia nascosta dietro ogni angolo, a credere che anche l'assurdo possa vere un senso.
Maestro di un cinema che non è solo intrattenimento, ma un vero e proprio atto di resistenza poetica contro la banalità del reale, fa affiorare il caso come forza motrice narrativa della vita quotidiana, all'interno della quale gli eventi sembrano concatenarsi non tanto per logica o per necessità, ma per una sorta di incantesimo del destino, dove ogni oggetto, ogni incontro, ogni azione innesca una catena di conseguenze imprevedibile. Un caso che non è caos, ma possibilità verso l'imprevisto. Dal ritrovamento di una vecchia scatola nascosta dietro una piastrella rotta a un semplice sasso, una fotografia strappata, un nome scritto su un vetro appannato. Indizi di un passaggio che costruisce, scena dopo scena, un flusso che ci mette in comunicazione con gli altri, anche senza esserne pienamente consapevoli.
E in questo mosaico di piccole coincidenze, di microscopici miracoli dell'ordinario, fa crescere l'ottimismo, suggerendoci che, anche nei giorni più grigi, può accadere qualcosa di bello, basta saperlo riconoscere e basta essere ancora un po' bambini dentro. L'umorismo infantile è infatti un'altra, sorprendente e persistente, componente del suo cinema. Presente anche quando affronta tematiche cupe, si aggrappa a essa per offrire leggerezza, la vena giocosa, la risata che si nasconde dietro la trovata visionaria. Un contrasto tra orrore e innocenza che crea un effetto straniante, ma anche profondamente umano. Se si pensa che in alcune ambientazioni post-apocalittiche dei suoi titoli il cannibalismo è trattato con una comicità slapstick, fatto di rumori esagerati, di movimenti coreografici e gag visive che sembrano uscite da un cartone animato, si può avere la misura di quanto riesca a unire il macabro con il buffo, il goffo e il paradossale. È come se il regista ci ricordasse che l'orrore non è mai totale, che anche nel buio può esserci spazio per il gioco.
Gli stessi personaggi sono delineati con una sensibilità bambinesca. Spesso sono adulti con tratti da bambini. Curiosi, ingenui, capaci di stupirsi. Il mondo che li circonda può anche essere crudele, ma loro lo affrontano con uno spirito ludico, quasi fiabesco e qui, rimarca ancora una volta, quanto l'umorismo possa essere una forma di resistenza. Un modo per non soccombere alle durezze della vita.
Una vita che è caratterizzata dalla presenza di filtri gialli (seppia con sfumature verdi) sull'immagine. La fotografia scelta (soprattutto quella di Bruno Delbonnel) è uno degli elementi più distintivi e riconoscibili del suo stile, con quelle tonalità calde che conferiscono alle sue opere atmosfere sospese tra sogno e nostalgia. Un trattamento cromatico non casuale, che vuole imprimere un senso di intimità, di tempo dilatato, come se ogni scena fosse immersa in una luce da eterno pomeriggio, richiamando il passato, deformando il presente e rendendo più evocativo ciò che arriverà nel futuro.
Jeunet, inoltre, lavora spesso con obiettivi grandangolari e prospettive distorte, che accentuano la teatralità delle scene e la caricatura dei volti, studiati millimetro per millimetro, riflettendo la volontà di un cinema sensoriale. Perché di quei volti se ne può sentire quasi il profumo, si possono quasi assaporare, si possono quasi abitare.
Studi
Jean-Pierre Jeunet nasce a Roanne nel 1953, ma studia a Nancy presso il liceo Poincaré. Prima di intraprendere la carriera cinematografica, trova lavoro come tecnico presso la France Télécom della stessa città, salvo poi interessarsi all'animazione, passione nata dall'incontro con Marc Caro, che ebbe un profondo e distintivo impatto sulla sua concezione filmica.
Il sodalizio artistico con Marc Caro
Caro, con il suo background da disegnatore e illustratore, infonde in Jeunet tutto il suo gusto per l'architettuta distorta, le atmosfere cupe e i dettagli eccentrici, condividendo con lui il tono ironico e nero in una narrazione non convenzionale e visionaria, spesso ricca di metafore sociali.
La sinergia tra i due funziona come un laboratorio sperimentale e, mentre Caro si occupa della parte visiva e scenografica, Jeunet si concentra sulla regia, con un equilibrio che ha permesso loro di creare opere artistiche e accessibili.
Assieme a Caro, il regista firmerà infatti L'Évasion (1978), ma soprattutto La Manège (1980), che otterrà il Premio César per il miglior cortometraggio e che rappresenterà una tappa fondamentale nella definizione del suo stile visivo e narrativo. Girato con la tecnica della stop motion, il corto è ambientato in una città notturna e piovosa, dove una giostra (la "manège", per l'appunto) diventa il fulcro di un'atmosfera sospesa tra il misterioso e il grottesco, grazie a luci basse, ombre marcate e musica ridondante. I personaggi, modellati da Caro, sembrano marionette deformi, che accentuano il tono oscuro e fiabesco dell'opera attraverso il linguaggio meccanico, ritmato ed espressivo della stop motion, rafforzando un senso di alienazione e smarrimento, come in un sogno disturbato.
Seguiranno Le Bunker de la dernière rafale (1981), Pas de repos pour Billy Brakko (1984) e Foutaises (1989), anche questo miglior cortometraggio ai César. Di soli sette minuti, Foutaises racchiude non solo molte idee e ossessioni che verranno poi sviluppate nei lavori successivi di Jeunet (in particolare in Il favoloso mondo di Amélie), ma anche uno dei suoi attori feticcio, Dominique Pinon. La critica apprezza soprattutto l'originale struttura dell'opera, costituita da una sequela di "mi piace/non mi piace". Un'idea semplice ma potentissima che gli permise di esplorare l'identità del protagonista attraverso frammenti visivi e sensazioni quotidiane.
I primi lungometraggi
A questo punto, Jeunet si sente pronto per co-dirigere con Caro il loro primo lungometraggio. Nel 1991, esce Delicatessen che, l'anno seguente, vince il César per la migliore sceneggiatura originale (scritta anche con l'ausilio di Gilles Adrien).
Prima pellicola surreale, con l'immancabile Pinon e con Jean-Claude Dreyfus, Delicatessen li spinge in prima linea, descrivendo un futuro distante e apocalittico in cui la società è al collasso. Il grano è usato come moneta di scambio e la carne è quasi impossibile da trovare. In questa atmosfera, un clown disoccupato trova lavoro come manutentore in uno squallido condominio, dove però, al pian terreno, si trova una macelleria di carne non propriamente animale.
Oggetto cinematografico non identificato, il film sfugge a ogni classificazione, pur strizzando esteticamente l'occhio a Maestri come Marcel Carné, René Clair, Jacques Tati e il nostro Federico Fellini, rintracciabili attraverso citazioni e suggestioni rielaborate in modo del tutto personale. Più che la trama in sé, ciò che colpisce è il modo in cui i due autori la mettono in scena, con una fotografia monocromatica dai toni seppia e oscuri, una colonna sonora dissonante e una costruzione visiva pensata per generare ansia. I personaggi, volutamente esagerati, oscillano tra il tragico e il grottesco, tra l'orrore e il sarcasmo, incarnando un gusto dichiarato per l'ironia più cupa. Lo script stesso si configura come una fiaba moderna, ispirata al filone del realismo poetico francese, ma spinta verso l'assurdo e il fantastico più stravagante. Nostalgico e caricaturale, prende spunto dal mondo dei fumetti per costruire un universo visivo raffinato e intriso di umorismo nero, proponendosi come riflessione amara e pessimistica sulla possibilità di vivere insieme, in un'allegoria della società in bilico tra il degrado e la speranza.
Dopo quasi quattro anni, sempre assieme a Caro nella regia e ad Adrien nella sceneggiatura, firma La città perduta, il loro secondo lungometraggio. Una storia nera, totalmente innovativa in termini di effetti speciali (parzialmente eseguiti da Pitof), che ha richiesto la creazione di nuovi software di computer grafica e che, dopo la presentazione a Cannes, è stato distribuito con successo in tutto il mondo.
Anche qui, siamo in un futuro distopico ma dark fantasy, nel quale uno scienziato pazzo non riesce a sognare ed è costretto a rubare i sogni ai bambini che rapisce. Con Pinon e Ron Perlman, La città perduta è un film affascinante, anche se complicato nella lavorazione (Jeunet e Caro idearono un set enorme con il mare, le onde, le strade e il canale). Il risulato vale il sacrificio fatto. L'estetica visiva steampunk è straordinaria, un trionfo di scenografia, costumi (di Jean-Paul Gaultier) e fotografia (di Darius Khondji), ricco di dettagli, meccanismi-giocattolo e atmosfere gotiche. Ogni elemento tecnico è al servizio dell'impeccabile immaginario del duo Jeunet-Caro, richiamando il realismo poetico di Carné e Prévert, seppur mantenendo un'impronta fumettistica.
Hollywood chiama
Hollywood rimane incantata e non può fare a meno di chiamare il regista francese in America e di affidargli un progetto artisticamente ambizioso: Alien - La clonazione (1997), basato sui personaggi di Dan O'Bannon e Ronald Shussett, ma scritto da Joss Whedon (uno script rifiutato persino dal regista britannico Danny Boyle).
Con una libertà immensa, la possibilità di usare il duo ormai collaudato Pinon-Perlman (assieme a Sigourney Weaver e Winona Ryder) e un budget ridotto, ma senza Marc Caro al suo fianco, Jeunet riesce a superare anche questo scoglio.
Si parte da duecento anni dopo la morte di Ellen Ripley, che viene clonata per combattere contro alieni ricreati in laboratorio.
I critici americani rimangono molto tiepidi nelle loro recensioni, ma il pubblico risponde meravigliosamente, tanto che il film diventa un blockbuster di grande successo al botteghino. Forse, a richiamarli nelle sale, non è tanto il proseguo della saga (perché non si è neanche di fronte a un semplice sequel, ma a un vero e proprio organismo mutante, un frammento autonomo che si innesta nella cronologia della serie), ma proprio l'estetica del regista, in grado di trasformare un'astronave in un relitto metallico, un agglomerato di rottami che richiama l'era proto-industriale, ancora una volta accentuata dall'atmosfera decadente con cromie cupe (nere e brune) di Darius Khondji, nella quale il clone di Ripley non può fare a meno di riflettere sul suo senso di perdita, sulla sua duplicazione, sulla deriva della sua identità.
Il capolavoro con Amélie
Con i soldi guadagnati, Jeunet ritorna in Francia e firma quello che è considerato da tutti il suo capolavoro: Il favoloso mondo di Amélie (2001), con Audrey Tautou, Mathieu Kassovitz, Rufus, Isabelle Nanty, Jamel Debbouze e il suo attore feticcio, Dominique Pinon.
Un successo senza precedenti, con otto milioni di spettatori, una candidatura all'Oscar per la miglior sceneggiatura originale, un BAFTA nella stessa categoria (condiviso con Guillaume Laurant) e un Premio César al miglior film e al miglior regista.
Ispirato a un fatto della vita dello scrittore Michel Folco, Il favoloso mondo di Amélie parla di generosità (la protagonista, una cameriera di Montmartre aiuta gli altri senza volere nulla in cambio) con un tocco unico e idealizzato, tale da rendere persino Parigi così diversa da come l'abbiamo vista (ordinariamente) in tutti gli altri film della Storia del Cinema, trasfigurandola in una capitale che è universo simbolico, crocevia di meraviglie care a Breton, Queneau, Perec e Rivette (un po' mistico-magica come la Parigi di Belfagor), qui catturata dal vivo, come ai tempi della Nouvelle Vague, ma poi modificata digitalmente, ripulita di scritti sui muri, auto parcheggiate irregolarmente o in seconda fila.
Il giudizio dei critici più severi lo liquida come un titolo sdolcinato o accomodante, eppure non si è potuto ignorare il fascino collettivo esercitato da questa parabola di altruismo che parte dal volto angelico e dal taglio di capelli impeccabile della Tautou, che qui si fa incarnazione di un sogno infantile, lirico e delicato, antitesi dell'erotismo, della brutalità e della trivialità (come disse Nice Matin), l'affermazione che il Bene esiste.
Jeunet è riuscito a tradurre tutto questo in una narrazione da fiaba, popolata da figure che ricordano caricature animate, alternando contemporaneità a richiami nostalgici, in un racconto corale, pungente e ironico, alla Mio zio d'America di Alain Resnais, quindi volutamente fuori dal tempo e orgogliosamente stravagante.
Altri titoli
Tenterà di ottenere gli stessi risultati con Una lunga domenica di passioni (2004), ambientato nella Francia del 1919, dove una ragazza di diciannove anni, rimasta claudicante in seguito alla poliomielite, non si dà pace e cerca informazioni sul suo fidanzato, partito due anni prima per il Fronte e automutilatosi per non combattere sulla Somme, e per questo condannato a morte dalla corte marziale con altri quattro soldati.
Trasponendo un romanzo di Sèbastien Japrisot, sceneggiato da Jeunet e da Laurant, Una lunga domenica di passioni è un grande affresco romantico sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale, con una favolosa Tautou, circondata da prestigiosi colleghi: i Premi Oscar Jodie Foster e Marion Cotillard, Gaspard Ulliel, l'ormai necessario Pinon, Chantal Neuwirth, Julie Depardieu, Tchéky Karyo e Denis Lavant.
Decide però di rimanere fedele al cinema in lingua francese e rifiuta la regia di Harry Potter e l'Ordine della Fenice, nonché Vita di Pi (che verrà affidato ad Ang Lee) e sceglie invece di ritornare sul grande schermo con L'esplosivo piano di Bazil (2009), pellicola satirica contro il commercio illegale di armi, incentrata sulla crociata di un sognatore dal cuor gentile che, con una banda di rigattieri, cerca una rocambolesca vendetta contro i loro fabbricanti, dopo essere rimasto orfano.
Purtroppo, il film riunisce poco più di un milione di spettatori, seppur evocando lo stesso incanto visivo di Amélie (tonalità calde, gialli tenui, sfumature seppia), tra ingenuità infantili e lirismo chapliniano, che però non conquistano malgrado la leggerezza poetica e la purezza giocosa del suo protagonista Danny Boon. Le inconfondibili coordinate stilistiche, i personaggi eccentrici e marginali, la regia dinamica che altera le prospettive convenzionali con movimenti di macchina spettacolari e improvvisi non richiamano più l'attenzione. E non lo fa neanche la favola sociale, dove non è la giustizia a trionfare, ma la forza visionaria di un'immaginazione militante, che si nutre di trovate ingegnose e figure pittoresche.
Nel 2013, firma Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, adattamento del romanzo "La mappa dei miei sogni" di Reif Larsen, che ha ricevuto recensioni positive, ma non ha segnato fasti al botteghino. La storia di un piccolo genio di dieci anni, che vive in un ranch nel Montana con il padre cowboy e la madre entomologa, ma che viene invitato dall'Istituto Smithsonian per presentare la sua invenzione di un dispositivo dal moto perpetuo, per il quale gli conferiranno un importantissimo premio, è un'avventura spassosa e ingegnosa, che mescola invenzioni da racconto fantastico e guizzi chapliniani. Eppure questa irriverenza alla Tom Sawyer del protagonista (Kyle Catlett) non sembra colpire il pubblico, forse ormai troppo corrotto dalle brutte notizie, dalle tensioni familiari, dagli ostacoli imprevisti della vita, per aggrapparsi a un mondo ideale intinto in un'armonia di toni luminosi e che, comunque, non nega le asperità della realtà. Esattamente come accadeva in Il favoloso mondo di Amélie, l'estro di Jeunet si manifesta in un montaggio poetico che unisce animazione, grafica artigianale e fotografia creativa, rendendo ogni inquadratura un piccolo gioiello di fantasia.
Dopo aver dichiarato la sua intenzione di lavorare a un remake di L'uomo che amava le donne di François Truffaut e di aver scritto due sceneggiature (una di genere erotico e l'altra su un robot), incontra molte difficoltà per finanziare i suoi futuri lavori. Intanto, co-dirige con Romain Segaud il corto Deux escargots s'en vont (2016), adattamento di una poesia di Prévert, poi riuscirà a portare sul grande schermo lo script sul robot, intitolandolo Bigbug (2022). Stavolta, siamo in un futuro neanche troppo lontano, e alcuni residenti molto litigiosi di un quartiere francese di periferia si ritrovano bloccati dentro casa quando una rivolta di androidi spinge i loro robot domestici a tenerli al sicuro. I critici hanno accolto Bigbug con giudizi perlopiù tiepidi, evidenziandone potenzialità non pienamente sfruttate. Il concept di fanta-satira, ambientato in una distopia domestica, è bello ma troppo stereotipato.
Il piccolo schermo, spot e videoclip
Poco attivo nel piccolo schermo, Jean-Pierre Jeunet firma inizialmente un episodio del telefilm L'Oeil du cyclone, nel lontano 1993. Poi si allontanerà dal media per tornarci solo nel 2015, con il film tv Casanova, realizzato per gli Amazon Studios e con Diego Luna nei panni del famoso seduttore italiano. I risultati non sono quelli sperati e Jeunet decide di chiudere definitivamente qualsiasi altra collaborazione televisiva.
Le uniche invasioni nel campo sono pubblicitarie e musicali. Dirige i video musicali di un buon numero di cantanti francesi (Julien Clerc, Jean-Michelle Jarre, Étienne Daho, Claudia Phillips, Lio e Gauvain Sers), nonché alcuni spot pubblicitari per marchi come Chanel, Lavazza, Milka, Barilla, Interflora e Peugeot.
Vita privata
Jean-Pierre Jeunet è sposato con la regista e montatrice Liza Sullivan dal 1997.