Frank Capra è un attore italiano, regista, produttore, è nato il 18 maggio 1897 a Bisacquino (Italia) ed è morto il 3 settembre 1991 all'età di 94 anni a La Quinta, California (USA).
Tra i registi di Hollywood: Ford, Vidor, Wyler, Wilder, Sturges, Huston, che hanno un loro stile, una loro personalità, una loro concezione del mondo, il palermitano Frank Capra ha saputo conquistarsi una posizione singolare. Celebre presso i pubblici del cinematografo, che spesso però lo confondono con buoni artigiani come Clarence Brown o George Cukor, Capra non è del tutto in odore di santità presso gli intellettuali puri che gli rimproverano l’eccellente mestiere, la facilità dell’ispirazione e il semplicismo ideologico. È giunto, pare, il momento di vederci un po’ chiaro; anche perché Frank Capra è uno del nostro sangue, un frutto saporito della seconda generazione d’emigranti italiani nel Nord America. Uno degli ultimi film, nell’ordine di presentazione italiana, è Meet John Doe (Arriva John Doe, 1941), una pellicola tipica del Capra minore, del Capra meno impegnato ma ricca del solito portentoso mestiere e di quell’ispirazione sentimentale che sta, s’intenda la faccenda con un grano sale, tra il Tasso e il De Amicis. In Arriva John Doe, Capra sviluppa il tema da lui affrontato con pieno successo Mr. Smith Goes to Washington (Mister Smith va a Was~ ington, 1939). Ancora una volta il semplice uomo di Capi ha a che fare con i «bosses» della politica americana; con editori di giornali privi di scrupoli, con ragazze che portano nella lotta per la vita uno spregiudicato realismo, che nascondono un cervello freddo e calcolatore sotto una angelica apparenza. Come sempre, l’eroe buono di Capra vive le difficoltà della politica, dell’economia e dell’amore, dotato di una capacità di bene quasi contagiosa che s’attacca, come una pappa molle, agli esseri meschini e avidi che lo circondano. È da aggiungere che anche le belle fanciulle si sciolgono, nelle ultime sequenze, davanti all’eroe come neve al sole. Questi sono però, più o meno, i limiti di Capra: limiti che appaiono in quasi tutte le sue opere, meno una, il capolavoro, cioè It Happened One Night (Accadde una notte 1934). È ora venuto il momento, esaminando analiticamente il fenomeno, di segnare le caratteristiche di questo autore così interessante e così, malgrado l’apparenza bonaria eretico nel cinema americano d’oggi. Nato a Palermo nel 1895 ed emigrato con i suoi negli Stati Uniti nel 1903, Capra debutta nel cinema dal 1921. Ha conquistato a Hollywood i galloni di generale, venendo, come si dice, dalla gavetta; studi tecnici secondari, poi autore di brevi comiche, assistente regista, disoccupato, e finalmente direttore artistico dal 1926. Le premesse di Capra sono da ricercarsi in questi tre punti: nell’origine di emigrante, negli studi non completi, nell’ambiente che lo ha visto adolescente e poi uomo, la California. Nell’origine da una famiglia di emigranti, venuta dal mezzogiorno d’Italia, è da ricercare il punto dolente e nello stesso tempo il motivo vitale dell’ispirazione di Capra: la malinconia che sempre accompagna lo sradicato, il senso di inferiorità di chi si sente straniero fra uomini indifferenti, sicuri di sé, di altre stirpi, di altra religione, di altra lingua. Negli studi tecnici è, subito, il punto debole di Capra: cui la povertà e l’ambiente hanno impedito una formazione culturale più solida, più approfondita, più vasta. Il semplicismo ideologico di questo autore è probabilmente da ricercarsi negli anni in cui Capra ha studiato troppo manuali di ottica e di costruzioni edili, ignorando completamente, non si dice Virgilio o Platone, ma i classici locali: Poe, Melville, Thoreau, James. Nel clima felice della California, che ha tanti punti di contatto con il mezzogiorno europeo, in quel sereno cielo pagano, nella comunità di genti accorse dai più diversi punti del globo: messicani e piemontesi, armeni e russi, vicino agli anglosassoni delle sette protestantiche più stravaganti, Capra ha avuto modo di farsi un’idea della società umana quanto mai ottimistica, mentre non gli sfuggiva la fondamentale diversità dei caratteri. Questa è la forza di Capra: la capacità di creare personaggi, di delineare tipi umani, di far rivivere con eguale intensità, con la stessa coerenza morale, milionari della «fine fleur» autoctona e artigiani di recente ceppo europeo; in più i vagabondi caratteristici suoi, che egli ha fatto scaturire, con bella obbiettività, da tutte le stirpi. Italiano, e quindi sensibilissimo all’appello muliebre, con la delicatezza però dell’uomo del Sud, Capra ha esordito come regista notevole con quel Submarine (Femmine del mare, 1928) in cui veniva fuori, trattata già con mano maestra, una delle problematiche più sentite dalla sua gente, la gelosia amorosa.Il racconto piacque molto, sebbene fosse chiaro che si trattava di un’opera che non andava molto più in là di un riuscito film commerciale. Alcuni anni dopo, in Ladies of Leisure (Femmine di lusso, 1930), Capra mostrava la sua vera qualità, e si rivelava un nuovo, grande regista. Stavolta al centro del dramma era una donna: quella Barbara Stanwyck che sarà l’attrice preferita da Capra, una donna sensibile, molto intelligente, fisicamente attraentissima, e provvista di una volontà di ferro. Nel film si narrava l’avventura di una ragazza, fuggita di notte da un battello da diporto dove le cose stavano volgendo al peggio, e ricoverata presso un pittore onesto e sentimentale. In fondo non era che una delle innumerevoli conversioni al perbenismo di una ragazza, dal passato un po’ burrascoso ma dal cuore non ancora contaminato, cui ci ha abituati l’età romantica; ma in Capra il motivo era riscattato sia dall’aver immerso la sua Violetta nell’ambiente americano che, ipocritamente, faceva finta di ignorarne l’esistenza; sia dall’aver affrontato il racconto con una capacità stilistica, che era già originalmente sua e che egli non ha più superato. Come è noto, in America è molto più facile che altrove difendersi dagli occhi e dal giudizio del vicino. L’uomo e la donna son veramente soli; il passato non conta, l’avvenire è incerto; e il presente è condizionato soltanto dagli incontri del momento. Questo spiega come una ragazza in una posizione ambigua come la Barbara Stanwyck del film possa pensare a una vita nuova, completamente disancorata dalle remore del passato. Si aggiunga (se i ricordi di un film di quasi venti anni fa, e non più rivisto, non ci ingannano) che il racconto si svolgeva in gran parte nello studio del salvatore, cioè in pochi metri di spazio. Era probabilmente la prima volta che la camera assumeva quel ruolo di «occhio psicologico», cui poì ci hanno abituato il Welles di Citizen Kane (Quarto potere, 1941) e il Wyler di The Best Years og Our Lives (I migliori anni della nostra vita, 1946). L’anno dopo riusciva a Frank Capra un gran colpo: un’opera singolare, che fa macchia nella sua carriera, che è perfettamente riuscita e che, nella sfera delle ambizioni «ideologiche» del regista, non avrà che seguiti deplorevoli. Si tratta del film intitolato The Miracle Woman (La donna del miracolo, 1931) sempre con Barbara Stanwyck. Era la storia adombrata dalla realtà (le cronache avevano panlato a lungo dì una certa Aìmée Mac Pherson la quale, dopo aver fondato una nuova chiesa ed essere in fama di santità, era dovuta fuggire per nascondere il frutto di una sua scappatella amorosa) di una ragazza che, in un clima di fiera e di santuario, si faceva adorare da migliaia e migliaia di fanatici. Essa prende poi, per merito dell’amore, la via per una esistenza meno rutilante anche se più onesta. Il «fait divers» americano aveva offerto a Capra uno spunto stupendo ed egli ci ha dato con La donna del miracolo una pellicola di grandissimo interesse psicologico e sociale. Colmo di comprensione e di carità, l’occhio di Capra segue la vicenda della profetessa senza giudicare. È un’opera originale ed è un gran peccato che sia stata inghiottita come tante altre meraviglie del cinema di una volta. Capra aveva ormai imbroccato la sua strada. Col capolavoro Accadde una notte, nato quasi per caso e che ricorda, sia per la modestia della sua nascita che per il successo riportato, l’avventura analoga di Roma, città aperta, il regista italo-americano era riuscito ad assicurarsi l’alleanza del capitale, attratto dal successo dei suoi film, e di un piccolo pubblico illuminato. Capra ha avuto una serie di successi. Anche nel Bitter Tea of general Yen (L’amaro tè del generale Yen, 1933) con brevi sbavature sentimentali, è da ricercare uno dei racconti di avventure più riusciti in quegli anni. Molti poi ricordano i tre piccoli capolavori seguenti: Broadway Bill (Strettamente confidenziale, 1934) con Myrna Loy; Mr. Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità, 1933) con Gary Cooper; Lady for a Day (Signora per un giorno, 1933) di cui sono protagonisti una caratteri-sta anziana, May Robson, e il rimpianto Warren William. Si dice comunemente che non si può costringere gli artisti ai capolavori. Questo può essere vero per Capra, come per Picasso o per Strawinski. Il fatto è che Capra, stanco dei «piccoli capolavori», ha allargato temerariamente le maglie della sua rete, credendo di fare una più grossa preda. Col risultato che gli sono scappati anche i pesci più piccoli. L’involuzione comincia con una sorta di mito platonico, però tradotto in termini da «Reader’s Digest»: Lost Horizon (Orizzonte perduto, 1937) e continua, dopo il simpatico Mr. Smith va a Washington, con It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946). Che farà ora Capra? Forse la domanda è illecita, in quanto un artista, che ha già dato molto, ha il diritto a un certo punto di ritirarsi sotto la tenda, di pensare ai quattrini o alla salute. Nel caso di Capra, di questo italiano nostalgico, che ha il cuore di un grande poeta e la preparazione culturale di una maestrina, tutto è possibile. Da una parte, quella più semplice, la via è sbarrata dai ricordi del passato; dall’altra, la più ambiziosa, la strada è ostruita da qualcosa che è più fonte delle buone intenzioni. Esiste una «terza via» anche per Capra? Soltanto l’avvenire potrà dircelo.
A sei anni arriva in California con i genitori e sei fratelli. Ragazzo, svolge molti lavori per aiutare la famiglia e mantenersi agli studi (si diploma perito chimico). A Hollywood trova impiego come montatore e assistente di un regista di short comici. Hal Roach lo assume come gagman. Nel 1925 fornisce spunti comici a Harry Langdon e dirige tre dei suoi maggiori successi, in co-regia con Harry Edwards: Di corsa dietro a un cuore (in originale Tramp Tramp Tramp, 1925), La grande sparata (The Strong Man, 1926), Le sue ultime mutandine (Long Pants, 1927). Dopo una infelice trasferta a New York, per dirigere un film con Claudette Colbert (For the Love of Mike, 1927), ottiene un contratto dalla Columbia, con la quale rimarrà per oltre un decennio, divenendone il maggiore esponente. I primi film vedono al centro delle storie - pasticci sentimentali di buona struttura - Barbara Stanwyck: Femmine di lusso (1930) e Proibito (1932) i più interessanti. Ma è soltanto con Accadde una notte (1934), insieme a una recuperata Claudette Colbert, la quale avrà per questo l'Oscar, come lui del resto (ne riceverà altri due), che Capra scopre quale dev'essere la sua vera vocazione di regista: narratore di ottimistiche e graziose favolette che mostrano come, in un'America squassata dalla crisi, gli uomini di buona volontà. possano superare ogni ostacolo.
Newdealista per istinto e ragionamento, costruttore di raffinati meccanismi di commedia, Capra sforna successi di grandi proporzioni: È arrivata la felicità (1936), L'eterna illusione (1938), Mr Smith va a Washington (1939), Arriva John Doe (1941). Gli attori - Gary Cooper, James Stewart, Jean Arthur, Lionel Barrymore - sono i suoi perfetti complici. Dopo aver collaborato allo sforzo bellico della nazione con la eccellente serie di documentari di montaggio Why We Fight, riprende il lavoro intorno ai consueti temi, un poco incupendo le tinte e attenuando l'ottimismo (La vita è meravigliosa, 1946; Lo stato dell'Unione, 1948). Ma il mondo cambiato (anche quello del cinema) gli è ormai ostile. Lavora in proprio per essere libero, ma la sua capacità di comprendere la società che lo circonda è insufficiente, sempre più debole. E i suoi film - tranne Un uomo da vendere (1959) - non sanno più mordere. Il grande Capra è solo un ricordo.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Milano, 1977. Puntualissimo secondo il programma, alle nove di sera del Primo Maggio il quasi ottantenne Mr. Capra fa il suo applaudito ingresso nel Salone Pier Lombardo (il teatro del povero Franco Parenti), interrompendo la proiezione di un suo film del 1931, La donna del miracolo. L'avevamo appena visto sullo schermo, in uno special televisivo a colori di quarantadue minuti, realizzato l'anno precedente: Frank Capra, l'uomo prima del titolo, con un riferimento diretto alla _sua autobiografia pubblicata nel -1971 e recentemente tradotta in italiano presso l'editore Lucarini: Il nome sopra il titolo. Dopo Griffith, Chaplin, DeMille e qualche altro, ma tra i primi con Disney nel cinema americano sonoro, il piccolo siciliano si era infatti conquistato alla Columbia questo diritto.
Intervistato nello special da Richard Sehikel, critico di "Time" (la rivista che a suo tempo gli aveva naturalmente dedicato una copertina), e da John Kuiper, archivista della cineteca della Biblioteca del Congresso; accolto in sala da Morando Morandini che, a nome dei critici milanesi, gli rivolge un indirizzo di saluto e gli fa dono d'un volume di fotografie su Milano; interrogato da Maurizio Porro, che fa giusto in tempo a porgli una domanda sul ritmo particolarmente accelerato del suo cinema...: ecco finalmente il mitico Frank in carne e ossa, rubicondo e gentile, molto ben conservato, vestito in modo colorito, da giovanotto d'altri tempi che vuol farsi notare ai nostri. Reduce da una visita al paese natale - Bisacquino, Palermo, Italy - che in questi giorni ha proclamato una giornata di lutto per la scomparsa del più illustre dei suoi compaesani; fresco di un discorso, il meno accademico possibile, ai critici di cinema e agli allievi del Centro Sperimentale in Roma, Mr. Capra risponde anche a Milano, praticamente con la velocità dei dialoghi dei suoi film, evocando i suoi inizi di uomo che s'è fatto da sé, di cineasta che non sapeva di esserlo, e che ha sviluppato da solo un suo stile perché, ingegnere chimico, non aveva alcuna esperienza né di teatro né d'altre arti, ed è stato, dunque, «studente e maestro» di se stesso.
Ma per Milano ha una battuta cortese: «Sì, ero orgoglioso dei miei film - ma solo fino a oggi pomeriggio. Oggi ho percorso a piedi il centro della vostra città. Sono, come vedete, piuttosto basso di statura. Ebbene, di fronte al Duomo, mi sono sentito piccolissimo. Quale lunga tenacia nell'uso di strumenti manuali. E la Scala: quante generazioni hanno suonato, cantato e danzato in questa sorgente d'arte. Così, i miei film di colpo non erano niente. Ho cercato di infondere un po' di speranza, di felicità e di coraggio, ma di fronte a queste cose, che sono lì da tanto tempo, ho fatto veramente poco».
Incorreggibile Mister Capra, ecco un bel discorsetto, degno di quelli che sembravano improvvisati, ma erano accuratamente scritti da Robert Riskin, la sua anima gemella (come Dudley Nichols per John Ford, come Pr6vert per Carn6, come Zavattini per De Sica...); generoso e simpatico Mister Capra, che allora li metteva in bocca ai suoi alter ego spilungoni - Gary Cooper come Mr. Deeds, James Stewart come Mr. Smith - nelle loro crociate di provinciali contro i templi del danaro, della giustizia e della politica. Come scrisse un penetrante critico americano, Andrew Sarris, «la sequenza obbligata di molti film dì Capra è la confessione di aver fatto sciocchezze, resa nei modo più pubblico possibile». Quella sera di Primo Maggio, a ottant'anni che stavano per suonare (il 18 dello stesso mese), il famoso regista - morto il 3 settembre 1991, ad anni novantaquattro - era invidiabilmente fedele al proprio copione di gioventù.
Lo special televisivo del 1976 ripercorre la sua carriera, da quando scriveva scenette per le comiche del «grande padre» Mack Sennett («ero un laureato disoccupato, volevo guadagnare soldi per specializzarmi in fisica»), a quando, nel lontano 1922, diresse il suo primo film, La ballata della pensione per famiglia di Fultah Fisher, lungo titolo ma pochi minuti di proiezione, tratto da un racconto di Kipling e molto apprezzato dalla critica («ma solo da essa. Comunque, doveva dirigerlo un altro, ma capii che potevo prenderne io stesso le redini»); a quando lanciò un comico trascurato, Harry Langdon, nell'epoca in cui trionfavano Charlie Chaplin, Buster Keaton e Harold Lloyd («era diverso dagli altri, si trattava soltanto di metterne in luce l'originalità»). Ma Capra generosamente non ricorda che, diventato famoso grazie a lui (che scrisse il soggetto di Tramp, Tramp, Tramp e lo diresse in The Strong Man e in Long Pants), Harry Langdon, il comico dalla faccia infarinata e dagli occhioni di bambola triste, si montò la testa, lo licenziò e, credendo di poter fare da solo, corse invece verso la propria rovina. In altra occasione, il regista aveva chiarito in modo più esplicito e con una punta di cattiveria il motivo della separazione: «II guaio fu che i critici cominciarono a spiegare la sua arte. Inoltre, egli suscitava un notevole inte-resse nelle donne. Era una posizione troppo elevata, per una personalità così piccina».
Un'altra stella che dovette tutto a Frank Capra fu Barbara Stanwyck che, come sappiamo, ancor prima di Jean Arthur lo ha preceduto nella tomba. Nel 1930, dirigendola per la prima volta in Femmine di lusso, egli scriveva al suo operatore Joseph Walker: «Sì, ha un bellissimo aspetto. Ma penso che perdiamo qualcosa di lei. Credo che sia potenzialmente una grande attrice, una personalità unica, ma che non la rendiamo sullo schermo. Voglio girare la sequenza senza belletti e senza pose fatali, voglio solo mostrarla com'è in realtà. Sono sicuro che sarà grande».
Fu un parere profetico; che infatti giustamente apre il librone Starring Miss Barbara Stanwyck dedicato da Ella Smith all'attrice nel 1974. Capra l'ha sempre chiamata, e lo faceva anche nella brevissima prefazione a quel volume, una "Signora-di-Qualità". Quando, appena giunto in Italia per la visita del 1977, lo intervistarono in televisione, alla domanda (una delle solite domande televisive) se aveva preferito dirigere Clark Gable in Accadde una nottte o Gary Cooper in È arrivata la felicità, non diede risposta: sia l'uno che l'altro resero con lui al meglio, perché furono, come non mai, naturali e spontanei. Ma alla domanda su Barbara Stanwyck e Claudette Colbert (che pure fu insuperabile in Accadde una notte), non ebbe alcuna esitazione.
In effetti, poche attrici drammatiche avrebbero affrontato con la verosimiglianza di Miss Barbara la tremenda, famosa sequenza iniziale della Donna del miracolo, il film interrotto quella sera a Milano dall'apparizione del suo regista. Citiamo dal programma distribuito allora in sala. Una piccola congregazione di provincia ha decretato la sostituzione del suo vecchio pastore all'antica con un «modernista». La domenica mattina gli abitanti del villaggio si riuniscono di malavoglia per ascoltare sbadigliando l'ultimo sermone del vecchio. Ma sul pulpito compare, con gli occhi fiammeggianti di odio; la figlia di lui, che dice: «Mio padre non potrà pronunciare il suo ultimo sermone. È morto or ora tra le mie braccia. Siete voi che lo avete ucciso. Per trent'anni egli ha cercato di commuovere i vostri cuori dl pietra con la misericordia di Dio, e non ci è riuscito. Perché? Perché voi non volete Dio. E avete ragione! Dio non esiste».
In un articolo pubblicato nel 1937 dalla rivista italiana "Cinema", lo stesso Capra spiegava il concetto di "naturalezza" prendendo in esame proprio Cooper e Gable. «Senza falsa modestia, Gary Cooper vi dirà che non è un attore! Egli ritiene che, tra l'attore che interpreta i più diversi ruoli e l'uomo che, come lui, si limita ad esprimere sullo schermo il proprio io, vi è una grande differenza. Non si può darla a intendere all'apparecchio da presa!». E su Clark Gable: «L'avevo visto più volte sullo schermo, ma non lo conobbi personalmente se non quando entrò nel teatro di posa per l'inizio delle riprese di Accadde una notte. Mi colpi subito il fatto che il vero Clark Gable non fosse mai stato fotografato, dal momento che mi vedevo davanti un Gable più simpatico, semplice e umile. Forse, egli si era sempre irrigidito davanti alla camera, di modo che la sua tendenza per la commedia leggera e il grande charme personale non erano mai stati scoperti. Comunque, avevo dinanzi a me un uomo assai diverso dal tipo aggressivo che fino ad allora mi era apparso sullo schermo». Con la sua cura, Capra portò Gable all'Oscar; anzi, con un en plein formidabile, portò all'Oscar anche il film, l'attrice Claudette Colbert, lo sceneggiatore Riskin, e se stesso per la regia. Il ricordo (si veda lo special) lo faceva ancora ridere di gusto poiché, per quanto riguardava il protagonista, in Accadde una notte «Gable non ha recitato affatto: si è limitato ad agire come agisce Clark Gable, e noi abbiamo avuto la fortuna di riprenderlo!». Tuttavia, nell'articolo, il regista sosteneva altrettanto a ragione che un buon film può creare una "stella", ma una "stella" non crea un film, né può salvarne uno cattivo.
Non per niente, insomma, Frank Capra fu il primo cineasta italo-americano a poter scrivere il suo nome sopra il titolo.
È arrivata la felicità, L'eterna illusione, Mr. Smith va a Washington; per queste tre commedie, più moralistiche che sofisticate, della seconda metà degli anni Trenta, Frank Capra è passato alla storia del cinema come il regista del New Deal.
È indubbiamente un titolo di merito, ma c'egli stesso, a sorpresa, ha voluto contestare nella sua autobiografia: «I miei rapporti, col New Deal? Li hanno inventati i critici». E, in effetti, tali rapporti appaiono più consistenti nel documentarismo americano dell'epoca, o in un film come Furore di John Ford. Per cui, paradossalmente ma non troppo, si potrebbe anche sostenere che il cinema di Capra non tanto si apparenta al New Deal di Roosevelt, quanto all'Old Deal dei padri fondatori.
È infatti il vecchio spirito pionieristico e libertario che aleggia nei singolari comportamenti dei suoi eroi. I quali nella loro inaudita filantropia (Mr. Deeds distribuisce i suoi milioni ai disoccupati, e per questo subisce il processo), nel loro candido ottimismo (come quello della famiglia Vanderhof che nel suo balletto anarchico e disinteressato trascina anche l'avido capitalista), risultano inevitabilmente irrazionali, lunatici, "picchiatelli": eppure trionfano grazie ai loro utopistici principi. E non è affatto un caso che, nel più "politico" dei tre film, Mr. Smith si chiami Jefferson. È il nuovo Thomas Jefferson che scende in campo contro il senatore corrotto, contro il malcostume elettorale e parlamentare. È l'inviato del popolo di provincia, l'idealista ingenuo e tenace, che si erge contro il potere di Washington. Capra parla alla nazione attraverso la maratona verbale di James Stewart e si comporta esattamente come lui. Nel 1939, in prossimità della seconda guerra mondiale, il suo film è ritenuto "sovversivo" da Joseph Kennedy, il padre di John e di Robert. Che offre all'autore due milioni di dollari perché lo tolga dalla circolazione. Capra sdegnosamente rifiuta. Di fronte a simili metodi "moderni", si sente un uomo all'antica.
Se si fosse fatto portavoce della politica del New Deal, complessa e contraddittoria, mai Frank Capra avrebbe avuto il successo che gli arrise in quegli anni. Si fece invece portatore di un sogno di giustizia, di fraternità e di felicità, che molto più confusamente, ma in modo assai più emotivo, toccava il cuore dell'uomo-massa. Prima le conseguenze della Grande guerra, poi quelle della Grande crisi, avevano alimentato quel grande, utopico Sogno, del quale Capra fu nel cinema il più popolare messia. Il suo cinema nasceva da Hollywood, eppure non era prettamente hollywoodiano. Il suo happy end, infatti, non era forzato, né imposto dalla "fabbrica dei sogni": era invece la conseguenza assolutamente logica della battaglia idealistica dei suoi piccoli e anonimi Eroi, ai quali il lieto fine è spalancato dal loro stesso entusiasmo.
«Sono basso, non molto attraente, nato all'estero, figlio di contadini analfabeti», non si stancava dì ripetere Capra. «Sono il tipo che non riesce a farsi servire nei ristoranti». Eppure - sottintendeva - guardate dove sono arrivato. Sono arrivato al punto di aver carta libera a Hollywood, di scrivere il mio nome prima del titolo del film, prima delle grandi "stelle" che lo interpretano. Per me l'American dream si è realizzato. A furia di sudore, ma ce l'ho fatta. Così può farcela ciascuno di voi, come ce la fanno i protagonisti dei miei film. Con la libera iniziativa, con l'osservanza dei doveri ma anche con l'ostinata difesa dei diritti, sui quali è edificata la nostra nazione. La commedia, bonariamente satirica se ,occorre, la commedia che suscita il riso ma non disdegna la commozione, è il sistema migliore per attrarre il pubblico in questa sacrosanta missione che è la democrazia.
Ottimi propositi cui corrisposero, a partire dal capolavoro Accadde una notte, anche ottimi film. Ma per stare a quel trittico così apparentemente "realistico", perché orchestrato con straordinaria abilità di scrittura, di interpretazione e di regia sull'esistenza quotidiana del cittadino comune, non e senza significato che vi si insinui (nel 1937) un film del tutto diverso, dove l'utopia non è celata nelle pieghe umoristiche del racconto, bensì dichiarata a tutte lettere: quell'Orizzonte perduto ambientato tra le montagne del Tibet, nel regno fantastico di Shangrila, nel raggelato piccolo universo della pace perpetua e della vita eterna. Questa volta, però, il sogno era visibilmente troppo astratto e riè il pubblico, riè la critica se ne lasciarono avvincere.
Dall'uomo comune all'«uomo qualunque» il passo può essere breve, e Capra lo compie in Arriva John Doe (1940), perdendo anche lui l'orizzonte dì fronte al fascismo incombente. Da cittadino militarizzato si riscatta producendo, e in parte realizzando tra il 1942 e il 1945, la serie di sette documentari di propaganda Perché combattiamo, nel mezzo della quale riesce a inserire una commedia di pura evasione come Arsenico e vecchi merletti (1944). Ricordate le due vecchiette che fiancheggiavano Gary Cooper nell'esilarante tribunale di È arrivata la felicità? Non sono evidentemente le stesse, ma in Arsenico e vecchi merletti, commedia macabra e assurda, si convertono in filantropiche assassine e in protagoniste. Tutto si ribalta nel mondo, e nel cinema di Capra i caratteristi diventano le vere "stelle" del film.
Finita la guerra, esce ancora un titolo memorabile dalla fucina del nostro emigrante. E vero che i tempi sono cambiati e che non si può più guardare a La vita è meravigliosa con l'occhio dell'anteguerra. Tuttavia anche Capra si è indurito e non crede più che il suo rapace capitalista possa di colpo tramutarsi in un agnello belante al suono dell'ocarina, come nel finale dell'Eterna illusione. Anzi il pezzo forte del nuovo film, provocato da un miracolo "alla rovescia", si ha quando l'angelo "di seconda classe", per compiere l'azione buona che lo farà ritornare "di prima", trattiene il protagonista dall'insano gesto di suicidarsi per debiti, mostrandogli la città natale preda del capitalismo trionfante, cioè come diventerebbe se lui rinunciasse a vivere e a battersi contro di esso.
È l'ultima grande trovata, ma ormai è chiaro che il mondo di Capra è stato inghiottito dal secondo conflitto mondiale e che della sua "eterna illusione" non sopravvivono che le ceneri. Il suo ultimo film Angeli con la pistola, che un canale televisivo ha riproposto in occasione della scomparsa del regista, era nel 1961 il rifacimento di Signora per un giorno girato nel 1933.
Dopo di che, trent'anni di silenzio, interrotti ogni tanto da qualche riapparizione o dichiarazione del vecchio galantuomo, da frequenti riprese delle sue opere ormai antiche, anche se non sempre antiquate. Lo abbiamo ascoltato, volta a volta, amareggiato o pimpante, ma costantemente dignitoso. Fu polemico quando, interrogato sulla sua attività di ufficiale-cineasta, rispose: «Oggi non potrei più ripeterla. Perché non credo più nelle guerre che fanno gli Stati Uniti». Fu irresistibile quando illustrò la sua concezione della comicità al Centro Sperimentale. «Per esempio, Napoleone che afferra un telefono e ordina ai suoi generali di prendere Mosca, sarebbe comico. Noi sappiamo che non disponeva di telefono. I Russi riderebbero ancora di più: essi sanno anche che non prese Mosca». Fu incontenibile nel 1984, quando Gianfranco Mingozzi lo intervistò a lungo per la prima puntata del suo eccellente servizio televisivo sugli italiani a Hollywood. Fu patetico nel dicembre del 1988 quando ormai novantunenne, protestò dall'ospedale per la minacciata colorazione natalizia, in Italia, del suo film La vita è meravigliosa. Ecco, in quella circostanza, l'appello di Frank Capra ai nostri autori di cinema:
«Nel 1946 ho creato il film La vita è meravigliosa con l'intenzione di far risaltare i valori della persona umana. Da alcuni critici la mia opera è stata definita "il più bel messaggio natalizio". Ne vado orgoglioso. Ora hanno rovinato il film, lo hanno totalmente impiastricciato di colori falsi e lo hanno così distrutto. La vita è meravigliosa è stato realizzato in bianco e nero. Il trucco degli attori, la scenografia, i costumi, la fotografia, le lavorazioni di laboratorio sono stati concepiti tutti per un film in bianco e nero, per una gamma precisa che va dal bianco al nero e non per altri colori. Con la colorazione sono venuti fuori colori incredibili, che hanno appiattito ogni cosa e dato ad ogni volto, agli oggetti, a tutto quanto, il medesimo aspetto. L'intera storia è stata quindi stravolta. Il povero John Huston, il mio caro collega, quando il suo film Il mistero del falco venne distrutto con la colorazione, espresse il suo sdegno con parole molto nobili. Disse: —Salvate il passato per il futuro; ogni futuro ha necessità di un passato. Proteggete le opere dei creatori del cinema. L'originalità delle opere è un'originalità storica. Tale originalità è stata cinicamente distorta per le generazioni future da coloro per i quali la verità e l'originalità delle opere non significano nulla. Io mi appello - concludeva Capra - all'Associazione degli autori cinematografici italiani per proclamare il mio veto alla diffusione della distorsione colorata del mio film, ben noto alla stampa italiana e ai cittadini del paese che mi diede i natali».
Per dovere di cronaca (nera) va aggiunto che anche in Italia non mancavano e non mancano i personaggi del cinema e della televisione favorevoli alla colorazione artificiale. Tra essi spicca per antica coerenza il critico cinematografico (!) Gian Luigi Rondi. Presidente della giuria all'ultima Mostra veneziana intristita dalla notizia della morte di Frank Capra, ricordava che, quando era direttore della Mostra nel 1985 "gli avevamo dato il Leone d'Oro alla carriera, ma Capra si ammalò e non poté venire a Venezia". C'è da rallegrarsi, piuttosto, piuttosto, che non lo abbia ritirato dalle sue mani.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006