Un film che intercetta una condizione comune nell’Asia contemporanea: la crisi dei legami e delle identità. Dal 22 dicembre al cinema.
di Emanuele Sacchi
In La mia famiglia a Taipei, Tsou Shih-ching costruisce un dramma familiare che sembra, più che raccontare una storia privata, intercettare una condizione comune nell’Asia contemporanea — e non solo. La vicenda della giovane donna che torna nella natia Taipei per affrontare il caos affettivo lasciato in eredità dalla famiglia non è che il punto di partenza per leggere, in filigrana, una crisi più ampia: quella dei legami, delle responsabilità e delle identità, messe in ginocchio dalla pressione del capitalismo contemporaneo. Una famiglia disfunzionale non come deviazione dalla norma, ma come risultato sistemico.
Il contesto urbano taiwanese, con la sua densità soffocante, gli appartamenti sovrapposti e le giornate scandite da lavori precari, diventa un organismo vivente che inghiotte il tempo e la capacità di ascoltare l’altro. Tsou non lo esplicita mai, ma lo lascia filtrare nei vuoti e nei silenzi, che non sono mai tali nel mondo iperconnesso che avvince e opprime sin dalla più tenera età – a soli 5 anni I-Jing non conosce la noia e cancella la solitudine scimmiottando i grandi e le storture delle loro vite spezzate. La disfunzione non ha origine in un trauma eclatante: è la normale corrosione dei sentimenti sotto il peso di ritmi di vita sempre più schiaccianti.
È una condizione resa evidente in molte opere del cinema contemporaneo asiatico, che negli ultimi anni ha fatto delle famiglie imperfette il proprio barometro sociale. A Sun di Chung Mong-hong raccontava una famiglia che implode attorno alle aspettative tradizionali del padre, intrappolate in un sistema meritocratico feroce. A Family Tour di Ying Liang mostrava come persecuzione politica e precarietà economica possano disgregare gli affetti, costringendo genitori e figli a esistere come estranei. Persino nel sudcoreano Broker di Hirokazu Kore-eda, le famiglie che si formano ai margini non sono tanto un gesto di speranza quanto una risposta disperata a una società che non contempla più il tempo dell’intimità.
Tsou si inserisce in questa linea, ma con uno sguardo più quotidiano e malinconicamente sommesso. La mia famiglia a Taipei non cerca lo shock né l’allegoria, ma fotografa la microfisica dei conflitti, le crepe minime che diventano voragini quando le relazioni vengono gestite con la stessa logica di efficienza e produttività del lavoro. Tre generazioni di donne sono rappresentate da altrettanti individui, che cercano di sopravvivere a un modello sociale che non ammette debolezze.
Risuonano, in questo senso, le famiglie destrutturate di Everything Everywhere All At Once, che trasforma la frattura generazionale in un multiverso di incomprensioni, o quelle di Aftersun, dove la difficoltà di condividere il dolore deriva anche dall’incapacità di trovare un ritmo di vita che non consumi energie emotive.
Nel film di Tsou, l’ambientazione taiwanese aggiunge però un dettaglio ulteriore: una società sospesa tra il vecchio e il nuovo, tra radici rurali e capitalismo digitale, tra comunità e individualismo. È in questo spazio intermedio che la disfunzione familiare trova terreno fertile. Non c’è mai una causa unica: è un insieme di micropressioni, di frustrazioni che non trovano sfogo, di sogni rimandati finché non diventano rancore.
Il film diventa così un piccolo saggio sulla fragilità delle relazioni nell’epoca iperproduttiva. Dove un banchetto di nozze, che un tempo era rito aggregante, oggi è teatro di tensioni accumulate; dove i legami sanguigni smettono di essere un rifugio e diventano un peso, perché nessuno ha più tempo né spazio mentale per curarli.
La mia famiglia a Taipei non offre soluzioni né redenzioni complete. Ma nella delicatezza con cui mette in scena il fallimento dei modelli tradizionali di famiglia, illumina il nostro tempo più di molti saggi sociologici. Non ci dice che la famiglia è in crisi: ci mostra, semplicemente, come viviamo quando non abbiamo più le energie per sostenerla.