Vincent Lindon, Coppa Volpi all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, esprime tutta la fatica del vivere sul suo corpo e nei suoi occhi in cerca di una risposta. Al cinema.
di Giovanni Bogani
Racconto intimo e affresco storico/sociale. Storia dell’amore difficile fra un padre e un figlio, e fotografia della Francia, o forse di tutta l’Europa, contemporanea. Fra questi due estremi si muove Noi e loro, delle sorelle Delphine e Muriel Coulin, emerse all’attenzione internazionale diversi anni fa con 17 ragazze. Qui, le due registe firmano un – bel – film che non pretende di spiegare, che sta accanto al dolore, che è come il sismografo di un terremoto intimo e sociale. Ma non pretende di analizzare le cause, né di fornire soluzioni.
Le due registe raccontano la deriva di un adolescente, la fascinazione della violenza dalla quale è attratto. Raccontano la brutalità e la violenza che affascinano e seducono tutta l’Europa. In un film che tiene lontano, accuratamente, le scene madri, la descrizione della violenza, la spettacolarità della ferocia. E che si concentra sui momenti più intimi di una tragedia familiare.
Il film si chiama, in originale, Jouer avec le feu, giocare col fuoco. È il fuoco della torcia che Vincent Lindon, operaio ferroviere, porta di notte lungo i binari della ferrovia, per illuminare la via ai suoi colleghi, come uno strano doriforo. E fra altri fuochi balla, nervoso, scattante, in una discoteca il figlio Fus, con le mosse disarticolate del Denis Lavant di Mauvais sang, un film degli anni ’80 di Léos Carax. L’altro, il padre, a fare di notte un lavoro pesante, duro, rischioso. Ha la faccia scolpita dalla fatica che avevano il ferroviere Jean Gabin del film La bête humaine di Jean Renoir, o Pietro Germi nel Ferroviere, o gli operai di Paul, Mick e gli altri di Ken Loach.
Già in quel film di Loach – l’anno era il 2001 – si sentiva, si vedeva la crisi di quegli operai, di quella classe sociale. Sacrificati in nome del liberismo, sull’altare degli appalti e subappalti, con la sicurezza sul lavoro perduta per sempre. Ma questo film registra uno scatto successivo del disastro sociale. La lotta per i diritti, la solidarietà, le manifestazioni sembrano tutti arnesi di un altro secolo, ferrivecchi.
Il ferroviere impersonato da Vincent Lindon non è un “proletario” in stile sovietico, ha un’auto dalla portiera silenziosa, una bella casa, un giardino. Un sogno piccolo borghese forse realizzato. Ma qualcosa si è interrotto, nel passaggio da una generazione all’altra.
Dei due figli, uno ha preso una direzione imprevista, imprevedibile, come un treno che deraglia. Viene in mente American History X, il film del 1998 con Edward Norton. Anche lì due fratelli, anche lì una provincia, americana in quel caso. Anche lì due fratelli che si amano, e uno dei due perso in una deriva neonazista. In quel film c’era la fotografia di quello che avremmo visto, negli anni successivi, negli Stati Uniti. Violenza, razzismo, fanatismo, suprematismo bianco.
Molti aspetti presenti in quel film affiorano anche in Noi e loro. Che è anche un film sul rapporto fra due fratelli, e dei due fratelli con il padre. Un padre che cerca di dedicarsi ad entrambi, quello che studia, che si iscrive alla Sorbona, e l’altro, che non si è preso neppure il diploma da metalmeccanico. Quello che si rifugia nel tifo, va allo stadio a tifare il Metz. Già: siamo in Lorena, in quella regione che teoricamente dovrebbe essere proprio il centro dell’Europa. A due passi da Strasburgo, simbolo e cuore di un’Europa sempre più disunita. A due passi ci sono la Germania, il Belgio, il Lussemburgo. Sono territori passati più volte dalla Francia alla Germania, come dice anche il padre Vincent Lindon. Ma il figlio Fus insiste, si sente “lorenese 100 per cento”. Qualunque cosa voglia dire.
E così, mentre il fratello minore va a Parigi, cerca di trovare la sua strada all’emancipazione, l’altro rimane condannato a una vita di provincia, lasciato ai margini della corsa alla felicità. Come se si fosse adagiato in un binario morto. Ed ecco crescere l’insoddisfazione, la rabbia. Fus mette in discussione i concetti cardine della società democratica, le tre parole chiave della Rivoluzione francese. Libertà, uguaglianza, fraternità: per chi?
Per chi, si chiede. Non vede libertà, non vede uguaglianza, non vede fraternità, se non nel branco.
Ma che cosa è successo? Che cosa è accaduto, per trascinare nella disperazione, nell’assenza di speranza, una generazione nata senza guerra, senza povertà, senza malattie, una generazione nata tutto sommato nel benessere e nella tranquillità? Com’è possibile che debba farsi affascinare dall’abisso, dalla violenza, dalla brutalità? Se lo chiede il padre Vincent Lindon. Se lo chiede il film. Ma non dà una risposta. Non dà una risposta, perché decide – a parte rari momenti – di stare accanto al dolore, invece di fare prediche.
Non è un saggio, non è un pamphlet. È una storia d’amore, amore mal compreso, mal metabolizzato. Ma forte. La scena del ballo, fra padre e figlio, che formano una improbabile coppia di rock ‘n roll, è bellissima. C’è tutta la goffaggine di Fus, c’è l’esperienza del padre Vincent Lindon, c’è la fiducia del figlio quando “salta” e si getta fra le braccia di lui. In questo film di ellissi, di violenza lasciata fuori campo, ciò che resta sono i momenti di amore.
È come se il film dicesse: i nostri figli rischiano di diventare mostri. Sono gli stessi figli che giocano con noi a pallone nel giardinetto dietro casa. Il mostro che li attrae è il branco, il branco che si agita dentro certe palestre e certe pagine social, nelle frasi violente, nelle speranze di un “rinnovamento” feroce e impietoso, fra svastiche e croci celtiche tatuate sulla pelle.
I mostri sono i bambini che giocano con una palletta in cucina, quando fanno colazione. Il seme della violenza può germinare ovunque. E i padri possono accorgersene troppo tardi, o essere incapaci di comunicare. Quando anche le certezze “democratiche” possono essere un ostacolo alla comunicazione. Perché i padri sembrano chiusi nella loro ragione, e i figli incapaci di parlare. Tutte le idee di solidarietà, di fratellanza sembrano arnesi vecchi. I vecchi democratici vanno in pensione, come quel collega di Vincent Lindon. Restano i ragazzi, teneri e violenti. Un po’ bambini e un po’ assassini, senza che l’una cosa escluda l’altra. E tutto questo si rispecchia nella faccia strapazzata di Lindon, in tutta la fatica del vivere segnata sul suo corpo, nei suoi occhi verdi in cerca di una risposta, una risposta che non viene. Giustissima la Coppa Volpi che gli hanno assegnato – con sua travolgente commozione – alla Mostra del cinema di Venezia.