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Ultimo aggiornamento giovedì 26 settembre 2024
La serie si addentra nel caso storico che ha fatto il giro del mondo, ha aperto la strada al fascino moderno del pubblico per il true crime e, in cambio, chiede a quello stesso pubblico: chi sono i veri mostri? La serie ha ottenuto 3 candidature a Golden Globes, 1 candidatura a SAG Awards,
CONSIGLIATO NÌ
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Nel 1989, i fratelli Lyle ed Erik Menéndez uccidono brutalmente i loro genitori, José e Kitty, nella loro lussuosa casa di Beverly Hills. Dopo aver tentato di simulare l'omicidio come un crimine di mafia, vengono arrestati quando Erik confessa tutto al suo psicologo. Durante il processo, i due affermano di aver agito per difendersi da anni di abusi sessuali e psicologici da parte del padre, mentre la madre sarebbe stata complice per la sua passività.
Il concetto di food porn è ormai universalmente noto: immagini di pietanze lucide, gonfie e scintillanti, visivamente appaganti quanto i loro sapori, e che stimolano il desiderio prima ancora che si possa assaporarle. Il piacere sta nella visione, nell'anticipazione, e non tanto nel consumo reale.
Come insegna la regina indiscussa del food porn, Nigella Lawson, è spesso l'atto di vedere e immaginare che alimenta l'eccitazione sensoriale. Quando Nigella apre il frigorifero nel buio della notte e si abbandona al piacere di un assaggio rubato, ciò che viene trasmesso non è solo la bontà del cibo, ma un'intera esperienza di godimento sensoriale. Questa estetizzazione del cibo, che rende anche il junk food o i piatti ipercalorici visivamente irresistibili, richiama un desiderio immediato, ma irrealistico, simile a quello che la pornografia suscita.
Questo stesso meccanismo è sorprendentemente applicabile alla rappresentazione della mostruosità in quasi tutti i prodotti nati dalla mente, altrettanto attraente e disturbata, di Ryan Murphy. E in Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menendez forse ciò accade più che in ogni suo precedente lavoro. Come nel food porn, il vero fascino qui non risiede solo nell'orrore dei crimini, ma nel modo in cui vengono estetizzate violenza e devianza, rendendole visivamente attraenti. I personaggi principali, i "mostri", sono presentati in modo tale da affascinare lo spettatore - già a partire dal casting, pensando ai mostruosamente sensuali Javier Bardem e Chloë Sevigny - con un'attenzione quasi ossessiva ai dettagli fisici. Le inquadrature si concentrano sui corpi, sui muscoli, sugli sguardi, in un gioco di luci e primi piani che esaltano la sensualità fisica dei protagonisti, anche quando sono immersi in atti ripugnanti.
Lo spettatore viene catturato da un'estetica visiva che gioca sulla tensione tra attrazione e repulsione, un desiderio di vedere e, allo stesso tempo, di mantenere la distanza. Come avviene con il cibo ipercalorico che sappiamo essere nocivo se consumato in eccesso, anche nelle serie Netflix di Ryan Murphy e Ian Brennan siamo coscienti che l'attrazione per i "mostri" è moralmente pericolosa... eppure la rappresentazione ne accentua il fascino! I movimenti di macchina sinuosi e i primi piani ravvicinati sui corpi dei protagonisti rendono la loro mostruosità ipnotica, come se la violenza stessa diventasse un oggetto di seduzione visiva, proprio come un piatto succulento presentato in una pubblicità di junk food.
La visione dei corpi perfetti di Nicholas Chavez e Cooper Koch (rispettivamente Lyle ed Erik Menéndez), inquadrati in modo da esaltarne la fisicità, crea un cortocircuito tra il riconoscimento della loro colpevolezza e l'attrazione estetica. Ciò che vediamo è bello da guardare, anche quando è socialmente ripugnante. Insomma, nell'attesa del cibo - o in questo caso, nell'anticipazione della violenza - risiede l'eccitazione maggiore, un piacere che non ha bisogno di essere consumato per essere vissuto.
In questa seconda stagione dell'antologica Monsters, l'estetica visiva e la regia non raccontano tanto la storia di due fratelli che uccidono i loro genitori; ogni scena, semmai, è costruita per esaltare la tensione tra ciò che è giusto e ciò che è desiderabile, con una cura maniacale per il dettaglio che amplifica l'ambiguità morale della narrazione. La rappresentazione di Lyle ed Erik, come anche quella dei loro genitori, è disturbante in quanto sovrappone costantemente vittime e carnefici, senza mai offrire risposte definitive, ma lasciando lo spettatore in bilico tra il giudizio morale e la fascinazione estetica... in altre parole lasciandolo senza prove, seppur sia messo proprio lì, nel banco dei giurati.
Si tratta di un vero e proprio, e tremendo, abbandono dello spettatore: Murphy e Brennan si comportano come dei genitori che, consapevolmente, decidono di non curarsi del proprio figlio, ripetendo - forse con un po' di compiacimento - un ciclo già vissuto. Questo abbandono "educativo" diventa ancor più problematico se chi guarda è chiamato a discriminare tra questioni di grande complessità, messe in parallelo tra loro - in primis, il parallelismo tra omosessualità e mostruosità. Come in altri lavori di Murphy (si pensi alla stagione precedente su Jeffrey Dahmer, ma anche a vari capitoli di American Horror Story), l'omosessualità dei protagonisti viene associata a una repressione che esplode in violenza. Questa rappresentazione, sicuramente affascinante a livello visivo, rischia però, in molte occasioni, di rafforzare stereotipi dannosi, in cui l'orientamento sessuale e la devianza criminale si fondono. Le scene che rappresentano i corpi dei protagonisti sono impregnate di sensualità, ma allo stesso tempo infuse di una sottile perversione, che rende difficile separare l'attrazione fisica dalla loro natura violenta.
Il tema dell'abuso di minore è, ovviamente, centrale nella narrazione: Lyle ed Erik sono vittime di anni di abusi fisici e psicologici da parte del padre José, un uomo dispotico e manipolatore, interpretato con grande intensità da Bardem. Eppure, col fine di mantenere uno sguardo oggettivo, la narrazione si trova ad oscillare tra la rappresentazione dei fratelli come vittime e, poi, contrariamente come manipolatori, incapaci di sfuggire al ciclo di violenza che li ha plasmati... Di nuovo la ciclicità di un trauma vissuto (reale e irreale, infine iperreale).
La stagione (e anche la precedente) soffre di una mancanza di chiarezza tematica, oscillando tra l'empatia per i protagonisti e il voyeurismo sensazionalistico. In particolare, la tendenza di Murphy a rappresentare i "mostri" come figure tanto affascinanti quanto terrificanti spinge lo spettatore a parteggiare per loro, complicando il messaggio della serie, trasformando la rappresentazione ambigua della violenza in una sorta di "giustificazione" per i crimini, e traducendo lo sguardo oggettivo che si vuole adottare in uno sguardo ossessionantemente soggettivo e, soprattutto, che empatizza con i carnefici, nonostante l'atrocità delle loro azioni.
Questa ambivalenza riguarda i protagonisti, ma viene poi estesa a tematiche più ampie, come abuso, pedofilia, e infine anche omosessualità e genitorialità. La connessione che Murphy traccia tra repressione sessuale e violenza finisce per rafforzare pericolosi (e datati) stereotipi; inoltre, la scelta di rappresentare gli abusi come qualcosa di ambiguo, quasi manipolabile dai personaggi per i propri fini, svuota di significato le reali esperienze di vittime di abusi, generando una narrazione che, invece di chiarire, complica ulteriormente il confine tra vittima e carnefice. Questo, inoltre, accade pericolosamente in quello che è, oggettivamente, l'episodio più affascinante e stilisticamente meglio riuscito della stagione. Quel "The Hurt Man" (quinto episodio) in cui, con un'unica inquadratura che lentamente si avvicina dal campo medio al primo e infine al primissimo piano su Erik, raccontando attraverso l'esclusione del corpo femminile della sua avvocata l'immersione nel rapporto tra lui e la madre... ecco, proprio in quel magnifico episodio tutto si mescola, in maniera orrendamente piacevole.
La serie cade in un esercizio stilistico che, seppur tecnicamente impeccabile, finisce per anestetizzare totalmente la gravità dei temi trattati, lasciando lo spettatore in una posizione davvero scomoda! Attratto e respinto. Mai pienamente soddisfatto né eticamente orientato.
La serie non offre mai risposte chiare: gli abusi sono reali o sono una scusa per giustificare il crimine? Murphy lascia che sia lo spettatore a decidere (cavoli suoi?) mantenendo sempre un'ambiguità che, però, proprio come accade nel food porn, stimola un desiderio che non potrà mai essere pienamente soddisfatto.
Buona abbuffata.