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di Marianna Cappi
					
			
 
								
	
			
							Sarah Bernhardt è Marguerite Gautier, Lucien Guitry è Armand. La morte li separa, dopo un lungo e sofferto amore, nel finale della Signora delle Camelie. Ma quell’amore non è solo finzione e Sarah e Lucien, i due mostri sacri del teatro francese, non sono solo colleghi. È la stessa attrice a raccontarlo al figlio di Lucien, Sacha Guitry, che da lì a poco diverrà a sua volta un nome di spicco del teatro e del cinema. È giunto il tempo che sappia che, delle sue decine o addirittura centinaia di amanti (così vuole la leggenda), lei ha amato veramente solo suo padre; lo ha fatto soffrire e ha sofferto a causa sua, quando lui, a un certo punto, le ha preferito un’altra.
Il biopic di Nicloux su Henriette Rosine Bernard, in arte Sarah Bernhardt, sceglie la sua relazione professionale e sentimentale con Guitry padre, come linea guida per orientarsi nell’esistenza della divina di Francia, ma fatica a rinunciare alla tentazione dell’aneddoto e finisce per assomigliare a un elenco di fatti noti, spillati senza un chiaro criterio a una scena o a quell’altra. Capricciosa, arrogante (“Non ho più bisogno di te, scarafaggio”), generosa soltanto con il figlio Maurice e contro il suo stesso bene, la Sarah Bernhardt di Guillaume Nicloux è una donna all’avanguardia per pensiero politico e libertà sessuale, ma caratterialmente insopportabile, portatrice consapevole di un narcisismo lucido che poteva essere rivoluzionario all’epoca ma oggi forse non affascina più.