
Ultimo capitolo di una trilogia che viene da lontano, il film ha vinto l'Orso d'Oro all'ultima Berlinale. Dal 13 marzo al cinema.
di Tommaso Tocci
L’Orso d’oro portato a casa in febbraio alla Berlinale è solo la punta dell’iceberg per il regista norvegese Dag Johan Haugerud, il cui Dreams – con una storia di amori illeciti e inter-generazionali raccontati in modo sofisticato e letterario – è in realtà l’ultimo capitolo di una trilogia che viene da lontano.
Sex, Love e Dreams sono i tre titoli che la compongono: una dichiarazione programmatica di chi vuole affrontare temi con la T maiuscola, ma nella sua mancanza di orpelli è anche la conferma di un approccio diretto ed essenziale verso dei termini che spesso ci piace complicare. E invece Haugerud mira a disarmare e illuminare il pubblico.
Dreams è l’ultimo a essere apparso sul circuito festivaliero, un anno dopo la presentazione di Sex alla Berlinale del 2024 e qualche mese dopo lo slot in concorso a Venezia per Love. Ma sarà anche il primo a uscire al cinema in Italia (il 6 marzo), e il secondo per ideale collocazione nel progetto originale del regista. Insomma, le circostanze ci dicono che l’ordine non importa poi molto, perché le storie sono autonome e i personaggi separati, pur con qualche comparsata e intrusione reciproca.
Tranches de vie che si sovrappongono nel contesto urbano di una Oslo contemporanea, piccole odissee quotidiane come ce ne sono tante: quella di Dreams è la più delicata perché parla di una relazione clandestina tra una studentessa diciassettenne e la sua professoressa in cui non sono chiari i contorni dell’accaduto, e lo spettro dell’abuso – o quantomeno di un pericoloso squilibrio di potere – si fa subito strada nella mente, in particolare della famiglia della ragazza quando viene a sapere della vicenda.
Eppure la protagonista Johanne non si fa allarmare dall’illecito o dalle possibili conseguenze; per lei, che sente “la vita in una nuvola”, il sentimento travolgente provato per la quasi omonima Johanna è un cambiamento già abbastanza epocale. È un primo amore che altera la percezione e cambia i colori dell’ambiente circostante (la fotografia di Cecile Semec per l’occasione va a scovare un caldo nucleo pastello tra i contorni dell’inverno scandinavo), e che unisce insieme ammirazione, identificazione e attrazione. Troppo per la comprensione razionale, ne conclude la giovane; solo la messa in letteratura può dare un senso all’esperienza.
Ne nasce quindi un manoscritto, e forse un talento artistico finora celato. Ne nasce pure un dibattito familiare al femminile, in cui la bella prosa di Johanne diventa un ascensore tra le generazioni e (ri)mette in contatto la madre Kristin e la nonna Karin, e le aspirazioni e preoccupazioni che le dividono e le uniscono. Karin/Kristin, come Johanne/Johanna, sono livelli che si sovrappongono, utili a illustrare il metodo narrativo di Haugerud che fa da sempre del cinema in filigrana, sottile e astuto, capace di aggiungere strati e cambiare ogni volta il suo disegno.
Aveva fatto lo stesso ad esempio nella ricca molteplicità di Beware of children, del 2019: opera dialogica e umanista, alla Foucault, in cui parlare dell’individuo voleva dire per forza trattare la collettività in cui esso è calato. Dreams/Sex/Love ragionano allo stesso modo; sono forse un’implicita ammissione del fatto che il processo di accumulazione tanto caro al regista-scrittore finisce per far collassare la singola unità-film tradizionale, e ha bisogno di uno spettro più ampio lungo cui muoversi.
Dreams, in particolare, è l’opera più immersa nelle insidie del linguaggio, in una trilogia che già fa della comunicazione e della mediazione il suo centro nevralgico. Noi siamo ciò che comunichiamo, sembra affermare l’autore attraverso una raccolta di personaggi in cerca di identità. Unico dei tre film ad avere a che fare con la giovinezza, ne è forse di conseguenza il più caldo e malleabile per come sa raccontare l’archetipo del furore amoroso adolescenziale in chiave idiosincratica e totalmente originale, oltre che vicina allo spettatore.
Spettatore che apprezzerà il delizioso lavoro sulla scrittura e sui dialoghi, infusi di quella analitica limpidezza scandinava che suona esotica a chi associa le vicende del cuore alla passionalità tipica delle nostre parti. Grazie a questo filtro razionale e schietto prendono vita dei personaggi che invece di arrivare alla parola attraverso il sentimento sembrano piuttosto fare il contrario, risalendo al sentimento a partire dalla parola.
In Dreams la parola abbonda, la si sviscera e al tempo stesso la si mette su un piedistallo, la si prova addosso con frenesia, una dopo l’altra come i tanti morbidi maglioni sullo schermo, in un’abbondanza espressiva che diventa liberatoria. Chi proseguirà poi nella trilogia potrà tentare il confronto con Sex, che avendo a che fare con burberi uomini adulti cresciuti nella tradizione vive il rapporto con la parola in modo più tentennante. Il primo e il secondo film sono allora tesi e antitesi, in un gioco di opposti che troverà una sintesi finale in Love, capace di trovare con la parole e con l’espressione un rapporto finalmente equilibrato.