
Un affresco potente e teso che mostra il carcere così com'è: una macchina che schiaccia tutti, che addestra alla sopraffazione. In streaming su MYmovies ONE. GUARDA ORA »
di Giovanni Bogani
Un carcere come un mondo. È questo, e molto di più, Huset – o Prisoner, come si chiama nel mercato internazionale – la nuova serie danese ideata da Kim Fupz Aakeson e diretta da Frederik Louis Hviid e Michael Noer. Un universo chiuso, claustrofobico, scandito da regole invisibili e da tensioni che montano in silenzio. Una “casa”, come dice il titolo originale danese, dove l’umanità si rivela per quella che è: fragile, opportunista, pronta a colpire per sopravvivere.
"Huset" vuol dire "la casa". Ma è una casa di cemento e metallo, dove i rapporti si deformano, dove nessuno è salvo: né i detenuti, né le guardie. Perché le guardie, in Prisoner, sono prigioniere tanto quanto i loro sorvegliati. Il confine fra dentro e fuori, fra chi apre e chi chiude le sbarre, è solo apparente.
L’eco di Lars von Trier
C’è qualcosa, in Prisoner, che ricorda The Kingdom (Il regno, 1994) di Lars von Trier. Là, il regista danese trasformava un ospedale in un regno popolato da fantasmi e da follie umane. Qui, la prigione diventa il laboratorio di una società malata: un concentrato di contraddizioni, tensioni etniche, rivalità, violenze sottili.
Ogni inquadratura è un piccolo sismografo di ansia. La macchina da presa, spesso a mano, non ti lascia respirare. L’aria è densa, pesante: le luci al neon sembrano tagliare la carne. Non c’è enfasi, non c’è pietismo. Solo la precisione di un racconto costruito su un lungo lavoro di documentazione, e la convinzione che l’essere umano – in condizioni estreme – smette presto di essere “buono” o “cattivo”. È solo un animale che cerca di salvarsi.
90 per cento minaccia, 10 per cento azione
È una serie quasi “anticinematografica”. Sporco, rumore, disordine: la prigione di Prisoner non ha nulla dell’inferno scenografico che il cinema ha spesso amato. Non c’è eroismo, non c’è catarsi. Solo attesa. Una routine che degenera, piccoli abusi che si sommano, sguardi che evitano altri sguardi.
È un mondo dove la regola è “fatti i fatti tuoi”: non vedere troppo, non controllare troppo, non sfidare l’ordine apparente. Ogni equilibrio è fragile. Ogni errore può esplodere in violenza.
La serie non si abbandona mai alla spettacolarità: più la scena è dura, più la macchina da presa si avvicina, si fa frammento, dettaglio, come se anche lo spettatore fosse dentro, parte della prigione.
Carceri reali, inferni reali
Guardando Prisoner, non si può non pensare a cosa accade fuori dallo schermo. Ad aprile 2025, in Italia, le persone detenute erano circa 62 mila, per una capienza ufficiale di 50 mila. Molti posti sono inutilizzabili, per manutenzione o inagibilità. Risultato: un tasso di affollamento che in istituti come San Vittore, a Milano, arriva al 200 per cento. Nel 2024 i decessi in carcere sono stati 246, cinquanta in più dell’anno precedente. Sovraffollamento, psicofarmaci, mancanza di personale educativo, assistenza sanitaria ridotta all’osso. Il carcere come discarica delle contraddizioni di uno Stato. E qui la serie colpisce ancora di più: perché il suo carcere “nordico”, teoricamente moderno e progressista, somiglia terribilmente ai nostri. Mostra lo stesso logoramento. Lo stesso abbandono.
Dal carcere alla metafora
Il cinema, da sempre, ha amato il carcere come metafora.
In Italia, Paolo e Vittorio Taviani lo fecero diventare teatro e redenzione in Cesare deve morire (2012), film girato nel carcere di Rebibbia, dove i detenuti interpretano Giulio Cesare di Shakespeare: vinse l’Orso d’oro a Berlino. Claudio Caligari, nel 1998, con L’odore della notte, lo raccontava come destino sociale, per chi nasce destinato a soccombere.
Leonardo Di Costanzo, nel suo Ariaferma (2021), ambientato in un carcere quasi svuotato, fece del vuoto stesso una metafora del potere e della convivenza. E con Elisa (2025), ancora Di Costanzo ha portato il carcere in alta quota: una prigione-laboratorio tra i boschi, dove la vera cella è l’anima.
Ma Prisoner va oltre. Rinuncia a ogni simbolismo esplicito, a ogni “messaggio”. Mostra il carcere come esso è: una macchina che schiaccia tutti, che addestra alla sopraffazione.
I fantasmi del cinema
Il paragone con i grandi film carcerari è inevitabile. Le ali della libertà (The Shawshank Redemption, 1994, Frank Darabont) resta l’archetipo hollywoodiano: l’amicizia, la speranza, la fuga. Ma qui non c’è fuga possibile. Più vicino, per tono e crudeltà, è Il profeta (Un prophète, 2009) di Jacques Audiard, Palma d’oro a Cannes: l’ascesa criminale dentro le mura. O Hunger (2008) di Steve McQueen, con Michael Fassbender, sullo sciopero della fame di Bobby Sands nella prigione nordirlandese di Maze. Oppure ancora Papillon (1973) di Franklin J. Schaffner, Fuga di mezzanotte (1978) di Alan Parker, o Brubaker (1980) con Robert Redford, che si finge detenuto per capire il sistema. Lì c’è sempre un eroe, una meta, un’uscita. Qui, in Prisoner, no. Il carcere è un labirinto senza centro, una casa senza porte.
La casa chiusa della democrazia
In fondo, Prisoner racconta la democrazia attraverso il suo buco nero. Il carcere come zona d’ombra di uno Stato che non sa più rieducare, ma solo contenere. Niente fughe, niente eroi, niente redenzioni: solo esseri umani intrappolati in un meccanismo che li consuma. È, come direbbe Michel Foucault, l’istituzione che non redime ma produce il criminale. Una macchina che perpetua se stessa.
Huset è un carcere dove non si scappa, ma neppure si cambia. Un luogo dove sopravvivere significa imparare le regole del sopruso.
Un affresco potente, teso, che non consola: perché, forse, ci ricorda che anche fuori da quelle mura, non siamo poi così liberi.