La Viajante

Angela è in profonda crisi esistenziale anche a causa di un problema familiare e decide di recarsi in un'area deserta per filmare gli insetti con una vecchia cinepresa. Avrà modo di leggere dentro di sé anche grazie a un fatto imprevisto che le accade.

Miguel A. Meijas al suo primo lungometraggio mostra sicure doti di regista che abbisognano soltanto di una liberazione da omaggi e sperimentalismi che ne limitano la profondità di scavo.

Nella prima parte del film, sin dalla prima inquadratura di una cinepresa su stativo, Meijas sembra credere che alcuni elementi del linguaggio cinematografico (camera fissa, movimenti di macchina lenti, primissimi piani, riprese volutamente amatoriali ecc.) siano di per sé marche che fanno entrare a far parte di diritto del ristretto mondo degli Autori. Purtroppo non è così o, meglio, lo è stato quando queste modalità di ripresa vennero proposte per la prima volta al pubblico liberando il cinema da routine ormai usurate. Oggi però rischiano di ridursi ad esibizioni di cultura cinefila che non riescono ad andare oltre per divenire davvero significanti.

Fortunatamente però a un certo punto il regista si lascia alle spalle il catalogo di quelle che un tempo furono vere sperimentazioni linguistiche ed affronta il tema della solitudine interiore di una personalità alla ricerca di risposte con altri mezzi, sempre rigorosi ma più dettati dall'esigenza di raccontare. Da quel momento Angela diviene una persona e non solo un'attrice da mettere in posa o da far muovere a comando.

Grazie anche a un'interazione complessa ed intensa con lo spazio (e non solo) il film si apre a una lettura del bisogno dell'essere umano di confrontarsi con un altro da sé che non sia solo un insetto chiuso in un involucro di vetro (immagine che ben rappresentava sino a quel punto ciò che Angela pensava di essere). 