Anno | 2017 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Hong Kong |
Durata | 97 minuti |
Regia di | Jenny Suen, Christopher Doyle |
Attori | Ranya Lee, Kin-Ping Leung, Michael Ning, Joe Odagiri, Tony Tsz-Tung Wu Jeff Yiu, Angela Yuen, K.P. William Cheng, Tin Long Wong, Si Wai Tam, Lam Lam Lee, Hay Lok Yuen, Yan Tung Lam, Tsang-Ning Chan. |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
MYmonetro | 2,50 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 1 dicembre 2017
In un piccolo villaggio di pescatori di Hong Kong c'è una ragazza allergica al sole. Incontra un misterioso personaggio e si accorge che è l'unico in grado di rendere più lieve il suo disagio.
CONSIGLIATO NÌ
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Una ragazza orfana di madre vive in un villaggio di pescatori. Deve proteggersi dalla luce del sole e così viene chiamata “la ragazza bianca” e trattata alla stregua di un fantasma da tutti gli abitanti. Un giorno un misterioso giapponese occupa un rudere con vista sul villaggio e la aiuta a comprendere il suo scopo nel mondo. Ma un gruppo di politici corrotti vuole demolire rudere e abitazioni per costruire dei centri commerciali.
Basta poco per comprendere dove andrà a parare il simbolismo di Christopher Doyle. Troppo poco. In linea con una filmografia che ha anteposto sistematicamente l’estetica alla sostanza, Doyle co-firma insieme a Jenny Suen l’ennesima elegia della Hong Kong che fu.
I personaggi diventano allegorie di luoghi e sensazioni, alla ricerca della magia di un luogo ormai smaterializzatosi tanto geograficamente che spiritualmente. È facile vedere nell’ultimo villaggio di pescatori destinato a essere cementificato un nostalgico atto d’amore verso il “porto profumato” (e il suo cinema): una ragazza senza madre, come una ex colonia, che non è mai stata autonoma né cinese, fino al 1997 del fatidico handover. Tematiche e simbolismi che sì ripetono da troppo tempo nel cinema in lingua cantonese, ridotto a umile parvenza di quel che fu, e che confermano l’obsolescenza del cinema di Doyle. Il tentativo è quello di inseguire un cinema onirico e impalpabile, ricco di sensazioni ottundenti più che di fatti narrati da uno script, alla maniera di The Christ of Nanjing di Tony Au, o delle coproduzioni tra Wong Kar-wai e Jeff Lau.
Ma di quelle pagine gloriose resta solo la perizia della fotografia di Doyle: in The White Girl il transfert non scatta mai, né si colma la distanza tra spettatore e opera osservata. Datare correttamente The White Girl senza conoscerne l’anno di produzione sarebbe quasi impossibile, tanto il film è cristallizzato in una stagione passata, chiuso in una bolla (a)temporale, immutabile da 20 anni in qua. Infine l’aggiunta del dispositivo concettuale - la torretta in rovina dotata di camera obscura, da cui è possibile osservare il mondo e proiettarlo su uno schermo - non fa che appesantire la metafora. Per toccare con mano quanto sia complicata, e tutt’altro che consequenziale, la transizione da direttore della fotografia a regista, la parabola di Christopher Doyle rimane un caso esemplare e The White Girl l’inesorabile conferma.