L’astronave Covenant è diretta verso Origae-6 per fondare un nuovo pianeta colonia: trasporta duemila embrioni e un equipaggio di dodici persone più un androide. Durante il tragitto un membro dell’equipaggio intercetta un segnale proveniente da un pianeta più vicino e sconosciuto, ma a quanto pare ancora più ospitale di Origae-6. Il capitano decide così di cambiare la rotta della Covenant ed atterrare nel nuovo mondo.
La premessa è superflua: se il primo Alien segnava un solco buio e angoscioso tra l’uomo e il resto dell’universo (quello spazio ignoto dove “nessuno può sentirti urlare”) senza riflessioni filosofiche, senza ironia, senza progettualità esistenziale, già in Prometheus questo stile è stato completamente stravolto, e Covenant non può che proseguire sulla scia. Ora si cerca il senso, l’atto primigenio, come se una Volontà creatrice, di quelle con la V maiuscola, entrasse di prepotenza nella saga di Alien come a subordinarla metaforicamente ai nuovi mezzi del cinema: possiamo fare, e dunque facciamo. Nel film come nel cinema. David come Scott.
Alien Covenant appare subito imbrigliato dal dovere di spiegare, trovando dei nessi non richiesti che, anziché costruire un’intima e credibile coerenza con l’inizio della saga, ne indeboliscono il mordente, al punto di rendere lo stesso Xeno meno pauroso e affascinante. Alien, alieno: rimanda a un’entità distante, un forma biologica che non ha nulla da spartire con gli umani, che giace nello spazio profondo per la stessa ragione per cui esistono le mosche o i ragni. La mostruosità dello Xeno serve a sminuire il ruolo umano del cosmo, e il fascino del primo Alien stava tutto in questo scarto: volerlo spiegare, storicizzare a tutti costi è un autogol di compiacimento che accomuna lo stesso Scott al vero protagonista della pellicola. Non il vuoto, ma l’androide David, uno straordinario Michael Fassbender in grado di dominare sugli stessi Xeno come sul resto del cast. Questo rapporto privilegiato che si instaura tra creatore e creatura (in cui lo stesso Scott, in qualità di demiurgo, ci sguazza eccome), partorisce una morbosità surreale, e con essa un paio di scene da abbandono immediato della sala.
Il film comunque, se si escludono cadute di stile ridicole come il piccolo chestbuster che saluta, è discretamente godibile. Parte piuttosto bene con una prima mezz’ora di puro reboot, come lo era l’inizio di Prometheus (quello che no, non era assolutamente un prequel…). Alien Covenant è ora un episodio della saga dichiarato, non ha bisogno di un marketing depistatorio e gioca a carte scoperte: sentiamo subito le due note ossessive del primo tema di Jerry Goldsmith e una grafica nei titoli di testa molto familiare. Il giochino è schematico ma divertente: con Noomi Rapace, vista anche la somiglianza, era immediato trovare la novella Ripley. Ora c’è la Waterston, immediatamente riconoscibile come eroina ma col viso più dolce e i modi più aggraziati. Oltretutto ha un marito, perché tutto l’equipaggio è formato da coppie.
Le cose precipitano (per il film come per i suoi protagonisti) dopo lo sbarco sul pianeta: l’incontro con i proto-Xenomorfi lascia perplessi, e anche l’intera storia che collega Covenant al precedente Prometheus pare il frutto di un progetto stravolto, in barba alla coerenza di trama, dal tentativo di riscattare il mezzo fiasco del 2012. Quindi via gli Ingegneri, di cui non sappiamo quasi nulla, via la brava Noomi Rapace, per concentrarsi solo sull’Alien. Quel mostro ideato da Hans Ruedi Giger è ora interamente digitalizzato, più fluido e dal piglio anfetaminico, conosciamo la sua genesi (quasi biblica per il modo in cui è trattata) e questo ne riduce parecchio il fascino assassino.
Degni di nota sono i terrificanti incroci di laboratorio, prototipi del futuro xeno, che ricalcano i cloni di Ripley nell’unica sequenza veramente antologica dell’evanescente quarto capitolo Alien, La clonazione: qui troviamo qualcosa di molto simile, in grado di generare una vera angoscia nello spettatore, sebbene con le forzature già elencate.
La fotografia, comunque, inonda lo spettatore di immagini visionarie di sicura efficacia, alternando i mostri velocizzati a scene cupe in un ambiente quasi eremitico.
Poi vi sono classiche scene di azione, sangue che scorre a fiumi e l’immancabile confronto finale un po’ sbrigativo e banalotto.
Nel complesso ad Alien Covenant manca quell’immediatezza spiazzante del primo vero Alien. E’ un film contorto, che si guarda volentieri se si è ormai entrati nell’ottica che il cinema è una fabbrica seriale, a puntate, che vive di “stagioni” come le serie tv e non aspira alla creazione dell’unicum, il gioiellino perfettamente circoscritto e autoconclusivo. Ma quelli capitano una tantum. E purtroppo non di recente.
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