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domenica 18 febbraio 2024
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brava marzia!
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jonny
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venerdì 2 novembre 2018
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dodici anni schiavo
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Il film racconta la storia di Salomon Northup,uomo nero libero con moglie e due figli che di mestiere fa il violinista.Un giorno due uomini bianchi gli propongono di lavorare con loro per una specie di circo,ma alla fine si rileverà una trappola che lo renderà schiavo per dodici anni.
L'Inizio del film è molto frettoloso, il protagonista non ci viene descritto neanche un po, mi sarebbe piaciuto vedere un po della sua vita prima della cattura; il film sa di dover parlare dI schiavitù ma si lascia prendere da questo fatto e alla fine a risentirne è il protagonista di cui non ci si affeziona ma si prova compassione per le ingiustizie che gli capitano.
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Il film racconta la storia di Salomon Northup,uomo nero libero con moglie e due figli che di mestiere fa il violinista.Un giorno due uomini bianchi gli propongono di lavorare con loro per una specie di circo,ma alla fine si rileverà una trappola che lo renderà schiavo per dodici anni.
L'Inizio del film è molto frettoloso, il protagonista non ci viene descritto neanche un po, mi sarebbe piaciuto vedere un po della sua vita prima della cattura; il film sa di dover parlare dI schiavitù ma si lascia prendere da questo fatto e alla fine a risentirne è il protagonista di cui non ci si affeziona ma si prova compassione per le ingiustizie che gli capitano.
Il continuo del film risulta abbastanza noioso,non per la lentezza,ma per il fatto che il film sembra che non abbia niente da dire,sono sempre le stesse situazioni ripetute finchè non subentra il personaggio interpretato dal fantastico Michael Fassbender un personaggio costantemente sopra le righe che spettacolarizza la schiavitú.
Alla fine il film riesce nel suo intento ovvero quello di schifare lo spettatore,ti fa capire quanto l'uomo possa essere cattivo e crudele verso I propri simili,ti fa capire lo squallore di qualsiasi tipo di schiavismo.
La regia di Steve McQueen è fatti di poche inquadrature spesso larghe che fa risaltare lo spazio attorno le persone oppure usa anche primi piani per accentuare l'emozioni del personaggio.
Il finale del film ha fatto accentuare l'incapacità del regista a farci capire il trascorrere del tempo nel film infatti non si capisce quanto tempo passa da un avvenimento all'altro(se non per il titolo)fosse per me potevano essere trascorsi solo sei mesi visto che il regista non ci da nessun indizio,bastava una scritta o I segni dell'invecchiamento sul protagonista.
Alla fine dodici anni schiavo risulta un bel film,molto sopravvalutato che ha vinto il premio oscar come miglior film piú per le tematiche che tratta invece che del film in sè.
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greatsteven
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mercoledì 20 giugno 2018
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percorso accidentato dalla schiavitù alla libertà.
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12 ANNI SCHIAVO (USA/UK, 2013) diretto da STEVE MCQUEEN. Interpretato da CHIWETEL EJIOFOR, MICHAEL FASSBENDER, BENEDICT CUMBERBATCH, PAUL DANO, PAUL GIAMATTI, BRAD PITT, LUPITA NYONG'O, ALFRE WOODARD, GARRET DILLAHUNT, SARAH PAULSON
Nel 1841, prima della Guerra di Secessione, il talentuoso violinista di colore Solomon Northup è un uomo libero che vive con la moglie Anne e i figli Margaret e Alonzo a Saratoga, nello stato di New York. Imbrogliato da due falsi artisti circensi nella veste di agenti che credeva amici, si reca con essi a Washington, dove, dopo esser stato drogato, viene imprigionato, frustato, privato dei documenti che attestano la sua libertà e condotto in Louisiana, dove rimarrà fino al 1853, cambiando per tre volte padrone e lavorando principalmente nella piantagione di cotone dello spietato schiavista Edwin Epps, ricco e crudele proprietario agrario.
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12 ANNI SCHIAVO (USA/UK, 2013) diretto da STEVE MCQUEEN. Interpretato da CHIWETEL EJIOFOR, MICHAEL FASSBENDER, BENEDICT CUMBERBATCH, PAUL DANO, PAUL GIAMATTI, BRAD PITT, LUPITA NYONG'O, ALFRE WOODARD, GARRET DILLAHUNT, SARAH PAULSON
Nel 1841, prima della Guerra di Secessione, il talentuoso violinista di colore Solomon Northup è un uomo libero che vive con la moglie Anne e i figli Margaret e Alonzo a Saratoga, nello stato di New York. Imbrogliato da due falsi artisti circensi nella veste di agenti che credeva amici, si reca con essi a Washington, dove, dopo esser stato drogato, viene imprigionato, frustato, privato dei documenti che attestano la sua libertà e condotto in Louisiana, dove rimarrà fino al 1853, cambiando per tre volte padrone e lavorando principalmente nella piantagione di cotone dello spietato schiavista Edwin Epps, ricco e crudele proprietario agrario. Solomon è ormai ridotto in condizioni di pura e brutale schiavitù, e infila un incubo all’apparenza interminabile nel quale sperimenta la cattiveria degli uomini e la tragedia della sua gente. Fra la malvagità di Epps e inaspettati quanto rari atti di carità, Solomon (ribattezzato Blatt, che è costretto ad assumere come nome da schiavo) lotta non soltanto per sopravvivere, ma anche per conservare la propria dignità. A colpi di frusta datigli da padroni vigliaccamente deboli o dannatamente degeneri, il pover’uomo avanza nel cuore oscuro del calvario statunitense provando a resistere e a riappropriarsi del suo autentico nome. Nel dodicesimo anno della sua terrificante disavventura, l’incontro casuale con l’abolizionista canadese Samuel Bass gli fornisce una speranza e una chiave di svolta nelle quali non sperava quasi più, ponendo un termine alla sua vita d’inferno. Bass riesce a rintracciare la famiglia di Solomon, che così viene raggiunto, identificato e finalmente liberato. Tornato a casa, riabbraccia la moglie e i figli ormai divenuti adulti, fra cui Margaret che l’ha reso nonno partorendo un bambino che ha chiamato come suo padre. Come recitano i titoli di coda, negli anni successivi Solomon intentò una causa contro i rapitori che l’avevano schiavizzato, senza tuttavia riscuotere un esito positivo, e s’impegno in battaglie legali a favore del fronte abolizionista. Per il suo popolo, occorreranno ancora quattro anni, un conflitto civile e il proclama di emancipazione di un Presidente illuminato. Adattamento del romanzo omonimo e autobiografico di Northup, sceneggiato da John Ridley, è un sontuoso film sulla schiavitù, aggressivo, veemente, che senza scorciatoie mostra e narra la natura dell’uomo, in grado di provare o infliggere intollerabili soprusi fisici e psicologici su altri uomini; è la storia di un’ingiustizia subita da un uomo che riesce a resistere, a non perdere la sua dignità; ed è assieme la storia di una speranza. McQueen dirige con un approccio pratico, lineare, all’apparenza facile ma in realtà pragmatico e veritiero: in una cornice pittorica meravigliosa (la natura, gli ambienti, i costumi: fotografia di Sean Bobbitt), disegna personaggi/caratteri volutamente squadrati, il martire, il vigliacco, il sadico, la vittima, il buono, gli indifferenti, per convincere lo spettatore a vedere, comprendere, indignarsi, commuoversi. Vi si può riscontrare anche un sottotesto religioso che, schivando abilmente le pretese di estremismo o di moralismo, traccia la figura di un Cristo di carnagione scura che però scampa alla morte, ma pur tuttavia, come il suo omologo originale, risorge, una volta riconquistata la libertà. C’è perfino un’analogia con Il pianista (2002) di Roman Polanski: il film del regista polacco raccontava la storia, anch’essa reale, di Wladyslaw Szpilman, suonatore di pianoforte rifugiatosi nel ghetto di Varsavia per non subire la stessa sorte dei parenti, deportati nei campi di sterminio; la sua musica gli ha permesso di sopravvivere. Solomon Northup è solo nella sua disgrazia e, a differenza di Szpilman, è meno fortunato dei suoi congiunti, ma continuare a suonare il violino malgrado la schiavitù gli dà il coraggio di tirare avanti anche in quelle feste in cui il razzismo dei proprietari terrieri costringe la servitù a ballare a suon di musica o, ancora peggio, per quanto paradossale possa sembrare, ricevere compensi sottoforma di cibo per l’ottimo lavoro svolto, come in un rapporto asino-contadino in cui ancora vigono il bastone e la carota. Interpreti da applauso: Ejiofor tira fuori il meglio di sé, facendosi anche conoscere dal pubblico internazionale per la prima volta, nel delineare un uomo istruito e pertinace; Fassbender è un credibilissimo antagonista principale che somministra le nerbate come confetti, tradisce la moglie e punisce chi, alle sue dipendenze, ha raccolto la minor quantità di libbre di cotone; Cumberbatch è il più umano dei proprietari terrieri che acquistano il protagonista, costretto però a trasferirlo dopo che questi ha avuto uno screzio e poi una colluttazione col capo-carpentiere (un P. Dano senza baffi dal piglio perfido e arrogante); Giamatti è un efficace mercante di schiavi molto abile nel contrattare sui prezzi di ciascuno, soprattutto scrupoloso nell’indicazione delle qualità al fine di arricchirsi a più non posso; L. Nyong'o è a suo agio nei panni della giovanissima e minuta schiava che supera i maschi nella raccolta del cotone, dapprima nelle grazie del padrone, dopodiché a lui invisa e peggio ancora da lui odiata non appena Epps scopre i suoi maneggi (del tutto innocui e innocenti, fra l’altro) con Solomon, il che le costa un numero incalcolabile di ferite inflitte alla schiena; S. Paulson recita il ruolo della signora Epps rimproverando al marito le scappatelle extraconiugali, non nascondendo mai il suo disprezzo razziale ma conservando comunque un certo tono di fermezza che le permette di esprimersi sempre con la testa sulle spalle; infine, il bravissimo B. Pitt (anche co-produttore), nonostante compaia solo in due sequenze, espleta magnificamente l’esegesi del rapporto uomo bianco-uomo nero in cui il primo, se agisce con virulenza nei confronti del secondo, un domani dovrà rispondere delle sue azioni riprovevoli a un’entità superiore, sfoderando la saggezza del viaggiatore che conosce a fondo gli esseri umani e meglio ancora la loro inderogabile necessità di uguaglianza reciproca. Oscar 2014 per il miglior film, sceneggiatura non originale e attrice non protagonista (Nyong'o).
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laurence316
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martedì 26 dicembre 2017
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un film storico potente ed essenziale, imperdibile
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Dopo Hunger e Shame, il 3° film di Steve McQueen (omonimo del noto attore) si rivela essere un altro ottimo film, sicuramente migliore del suo secondo.
12 anni schiavo è un lungo (più di due ore), lento (ma non noioso) e angoscioso racconto, tragico e potente, che si propone di descrivere senza mezzi termini le terribili condizioni a cui erano sottoposti gli schiavi nelle tremende piantagioni di cotone (un proposito, questo, che per quanto non originalissimo, rimane pur sempre più che nobile). Ma non solo, è talmente realistico nella sua feroce denuncia, da rendere talvolta persino difficile la visione.
Crudissimo e a tratti insostenibile, narra dei soprusi quotidiani, delle sevizie, delle punizioni corporali, degli stupri a cui gli schiavisti costringevano i loro schiavi.
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Dopo Hunger e Shame, il 3° film di Steve McQueen (omonimo del noto attore) si rivela essere un altro ottimo film, sicuramente migliore del suo secondo.
12 anni schiavo è un lungo (più di due ore), lento (ma non noioso) e angoscioso racconto, tragico e potente, che si propone di descrivere senza mezzi termini le terribili condizioni a cui erano sottoposti gli schiavi nelle tremende piantagioni di cotone (un proposito, questo, che per quanto non originalissimo, rimane pur sempre più che nobile). Ma non solo, è talmente realistico nella sua feroce denuncia, da rendere talvolta persino difficile la visione.
Crudissimo e a tratti insostenibile, narra dei soprusi quotidiani, delle sevizie, delle punizioni corporali, degli stupri a cui gli schiavisti costringevano i loro schiavi. Perché difatti, Epps e gli altri, come ogni “buon schiavista”, considerano quelle vite umane come loro esclusiva proprietà, come un oggetto, un qualcosa che si possa vendere e comprare, e, dopotutto, come afferma proprio il personaggio di Fassbender: “Un uomo fa quel che vuole con ciò che gli appartiene”. Ci si cala nell’anima nera degli uomini, si descrive con puntiglio quasi documentaristico a quali bassezze siano in grado di arrivare.
12 anni schiavo è un film potente e atroce, che punta tutto sul coinvolgimento emotivo dello spettatore, lasciando da parte l’approfondimento di diversi personaggi, a cominciare dallo stesso protagonista, di cui non vengono rivelati diversi aspetti della personalità o del rapporto con la famiglia e con gli altri schiavi. Il regista punta, al contrario, tutto sul lato “spettacolare”, sul tentare, con ogni mezzo, di colpire duro, suscitando un inevitabile sentimento di indignazione e rabbia nei confronti dei fatti narrati. E’ un film che porta, più che alla compresione, allo sdegno. Ma nonostante tutto rimane un film importante e assolutamente da vedere, un film diretto con tocco classico, lasciando scorrere lentamente la narrazione in modo che, per l’appunto, lo spettatore abbia il tempo di immedesimarsi, di commuoversi, di indignarsi. Un film tanto più necessario ai tempi che corrono.
Candidato a 9 Premi Oscar, vince quelli per il miglior film (su annucio niente poco di meno che di Michelle Obama), miglior sceneggiatura non originale (Ridley) e miglior attrice non protagonista (la straordinaria Lupita Nyong'o) che, per una volta, sono assegnati ad un film che se li merita davvero. 12 anni schiavo è un film essenziale e imprescindibile, sicuramente uno dei migliori della stagione.
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giorpost
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martedì 28 febbraio 2017
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nonostante i premi, mcqueen non convince del tutto
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Solomon Northup vive nello Stato di New York da uomo di colore libero, con famiglia a seguito, un lavoro nel campo artistico e una casa. Il guaio è che si trova nell'epoca sbagliata nella nazione sbagliata, ed ecco che in un rapido giro di boa viene catapultato nel profondo Sud schiavista: rapito, drogato e privato dei documenti da due mercenari, spacciatisi per (falsi) impresari, deve affrontare un viaggio di un mese a bordo di una slave-ship fino ad essere venduto ad un negriero della Louisiana. Siamo nel 1841 della Cotton Belt e della -vera- nascita del Blues, poco prima della Guerra Civile, poco prima di Lincoln.
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Solomon Northup vive nello Stato di New York da uomo di colore libero, con famiglia a seguito, un lavoro nel campo artistico e una casa. Il guaio è che si trova nell'epoca sbagliata nella nazione sbagliata, ed ecco che in un rapido giro di boa viene catapultato nel profondo Sud schiavista: rapito, drogato e privato dei documenti da due mercenari, spacciatisi per (falsi) impresari, deve affrontare un viaggio di un mese a bordo di una slave-ship fino ad essere venduto ad un negriero della Louisiana. Siamo nel 1841 della Cotton Belt e della -vera- nascita del Blues, poco prima della Guerra Civile, poco prima di Lincoln.
Inizia, così, un'odissea che durerà dodici interminabili anni attraverso i quali Solomon, che verrà identificato come Platt, subirà ogni tipo di vessazione psico-fisica, venendo ceduto da un “padrone” all'altro, fino a trovarsi al cospetto di Edwin Epps, ricco ed avido latifondista, sadico torturatore e stupratore seriale. I numerosi tentativi di Northup/Platt di scappare o di scrivere lettere che possano assicurargli la liberazione, vengono sottaciuti o rinviati sia per l'amenità di taluni uomini che per mera sfortuna; ciò non di meno egli, tranne in una sola occasione nella quale reagisce con veemenza ad una evidente provocazione, non esiterà mai a piegarsi alle volontà altrui, finanche quando si vedrà costretto ad assistere ad impiccagioni sommarie di suoi conterranei o a dover frustare Patsei, schiava “favorita” di Epps, oggetto delle sue perverse attenzioni e al centro delle discussioni coniugali della ricca coppia bianca. La storia di Solomon terminerà allorquando un falegname canadese, di ampie vedute socio-politiche, incrocerà il suo tortuoso cammino...
Quando il Cinema diventa denuncia, vuoi che si tratti di attualità, vuoi che si tratti di Storia, incontra giustamente favori e lodi, a maggior ragione quando vengono riproposti argomenti che rischiano di precipitare nell'oblio. L'America, si sa, non ha mai fatto fino in fondo i conti con un passato scottante e imbarazzante, fatto non solo di schiavismo di Stato, ma anche dello sterminio dei nativi, finendo (e siamo nel '900) all'atomica e alle guerre “lampo”. Un passato (allacciabile al presente) che deve essere raccontato, magari sfruttando l'avidità di qualche produttore arrivista di turno o semplicemente utilizzando l'abbrivio emotivo di registi dal forte stampo idealista.
12 Years a Slave (USA , UK, 2013), tratto dall'omonimo romanzo autobiografico, appartiene ad un filone riportato in voga negli anni duemiladieci, in piena epoca Obama e durante la crisi economica globale. Ma cosa spinge un artista ad intraprendere un percorso così arduo? Probabilmente la curiosità: per capire cosa stiamo attraversando oggi, occorre dare un'occhiata dalla finestra che si affaccia sul nostro passato, su cosa siamo o non siamo stati. Potrebbe sembrare dietrologia, ma rivangare gli orrori e le nefandezze storiche -per le quali tutti abbiamo una fetta di responsabilità morale-, è un efficace metodo per non ripeterli, ed altresì utile mezzo per apprezzare maggiormente il mondo in cui viviamo. Il Cinema è anche questo, è politica, società, economia e quando un regista, nella fattispecie il bravo McQueen (autore del bellissimo Shame) affronta un lavoro così audace, il plauso è d'obbligo.
Altre faccende, però, sono la qualità del prodotto, il come viene raccontata la storia, la performance degli interpreti, il ritmo imposto alla pellicola e via discorrendo. E proprio in queste ultime sfaccettature stanno i difetti di quest'opera, a cominciare, a mio modesto avviso, da una regia piatta, direi quasi banale, sperando di non offendere chi l'ha premiata; secondo punto, il pur bravo Ejiofor (che poteva, onestamente, scegliersi un nome d'arte più fruibile) non mi ha convinto con quell'atteggiamento rinunciatario e dimesso, non essendo riuscito ad insinuare nel suo personaggio un'auspicabile verve combattiva che invece pervade tutta l'assurda storia di cui è protagonista. Lasciando perdere il ruolo che Pitt si è ritagliato -in quanto produttore- e che poteva tranquillamente cedere ad un volto più propedeutico e ritenendo (umilmente) esagerata la statuetta a Lupita Nyong'o, autrice di una prova ottima, certo, ma non sconvolgente, desidero sottolineare l'ennesima prova convincente di Fassbender, pupillo del regista, e quella del sempre brillante Giamatti.
Nel complesso il film si lascia guardare per il peso della storia che racconta, che è un vero macigno di coscienza, ed anche per il coraggio, ma si perde negli eccessi di un autore che, forse, ha ceduto troppo al voyeurismo e all'autocompiacimento, tra nudi a ripetizione, cicatrici in evidenza e sequenze inutilmente prolungate. Non basta appigliarsi alla veridicità degli eventi narrati: si poteva (e i premi non fungano da parafulmine) fare molto, molto di più.
Voto 7-
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inesperto
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domenica 12 febbraio 2017
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schiavitù
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Storia vera, tema importante. Poco motivato l'oscar a Lupita Nyong'o: non si vede la straordinarietà della sua prova. Fassbender, invece, è a dir poco superbo.
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aristoteles
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domenica 17 luglio 2016
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solomon e la libertà
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Ci sarebbe quanto basta per potere gridare al film di altissimo livello : storia tragica,schiavitù,inganni,sofferenze,ottimi costumi,buoni attori,etc.etc.
Purtoppo,almeno personalmente,sono arrivato a fine film con una certa difficoltà.
Non ho provato grandi emozioni,non sono riuscito a "soffrire" con il protagonista e a tratti mi sono anche annoiato.
Senza libertà l'uomo non può vivere e la pellicola andrebbe visionata solo per questo motivo,tuttavia, ripeto c'è una fiacchezza di fondo che non mi ha convinto,nonostante i tanti premi vinti.
Solomon ,ovviamente, non va dimenticato,forse la pellicola a lui dedicata non resterà nella storia.
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Ci sarebbe quanto basta per potere gridare al film di altissimo livello : storia tragica,schiavitù,inganni,sofferenze,ottimi costumi,buoni attori,etc.etc.
Purtoppo,almeno personalmente,sono arrivato a fine film con una certa difficoltà.
Non ho provato grandi emozioni,non sono riuscito a "soffrire" con il protagonista e a tratti mi sono anche annoiato.
Senza libertà l'uomo non può vivere e la pellicola andrebbe visionata solo per questo motivo,tuttavia, ripeto c'è una fiacchezza di fondo che non mi ha convinto,nonostante i tanti premi vinti.
Solomon ,ovviamente, non va dimenticato,forse la pellicola a lui dedicata non resterà nella storia.
Ai posteri l'ardua sentenza.
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bruce harper
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domenica 20 dicembre 2015
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il rapporto di minoranza di salomon northup
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Questo film racconta la più classica delle discese agli inferi, la vita spensierata di un uomo qualunque che piomba senza motivo in un doloroso e disperato incubo ad occhi aperti. Eppure c’è qualcosa di strano in questo film, qualcosa che non quadra. C’è un senso di disagio, di sfasatura, di idiosincrasia, che serpeggia in tutta l’opera, non so di preciso ma Salomon non sembra mai ben inquadrato, contestualizzato, nelle situazioni in cui è immerso, sembra più un TESTIMONE che un protagonista, un testimone indiscreto, marginale, decentrato. Salomon non è un negro che ha vissuto ‘al centro’ della schiavitù, è un negro che è finito ‘in mezzo’ alla schiavitù, per caso, in un mondo non suo, lui che è cresciuto da borghese libero e istruito nel civile e democratico Midwest.
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Questo film racconta la più classica delle discese agli inferi, la vita spensierata di un uomo qualunque che piomba senza motivo in un doloroso e disperato incubo ad occhi aperti. Eppure c’è qualcosa di strano in questo film, qualcosa che non quadra. C’è un senso di disagio, di sfasatura, di idiosincrasia, che serpeggia in tutta l’opera, non so di preciso ma Salomon non sembra mai ben inquadrato, contestualizzato, nelle situazioni in cui è immerso, sembra più un TESTIMONE che un protagonista, un testimone indiscreto, marginale, decentrato. Salomon non è un negro che ha vissuto ‘al centro’ della schiavitù, è un negro che è finito ‘in mezzo’ alla schiavitù, per caso, in un mondo non suo, lui che è cresciuto da borghese libero e istruito nel civile e democratico Midwest. Ed è come se questa dissonanza risuonasse durante tutto il film, da una parte gli schiavi veri dall’altra quello fake, posticcio, la nota stonata. McQ non ci racconta la storia dello schiavismo, il suo non è un affresco sulla memoria né un discorso sulla natura umana, lui ci racconta la storia di un uomo qualunque che è finito per sbaglio in un destino non suo, il ritratto di un drop-out, le memorie di uno straniero. UN UOMO CHE NON E’ VITTIMA DELLA STORIA MA E’ VITTIMA DEL CASO, perché l’ingiustizia raccontata non è lo schiavismo in sé ma l’averlo vissuto per sbaglio.
Ma il punto è perché? Perché McQueen sceglie un protagonista così alieno? Una voce fuori dal coro, un rapporto di minoranza? Perché non ci narra di Kunta Kinte? Quintessenza della negritudine schiava? Sembra quasi voglia dirci che noi possiamo assistere allo schiavismo ma non possiamo capire lo schiavismo, capire la portata immensa di quel dolore perché non lo abbiamo vissuto, così come non lo vive Salomon, che diventa oggetto del nostro transfert, della nostra compassione, più per il suo essere corpo estraneo in un destino non suo che per essere un negro negli anni della schiavitù. L’orrore dello schiavismo è toppo grande per essere raccontato/immaginato/compreso, resta sullo sfondo, è un background, la cornice, ma di più non si può, l’orrore e’ troppo grande, troppo indicibile. E’ questa la causa dell’afasia, dell’inadeguatezza. L’inadeguatezza di Salomon alle prese con un destino troppo grande riflette e veicola l’inadeguatezza di McQ alle prese con un soggetto troppo grande, soverchiante, ingovernabile. E questo disagio (dell’autore), questa sfasatura (dello sguardo), scaturiscono prepotenti dalle immagini per balenare con veemenza sulla faccia di chi osserva.
Ma chi è che osserva?
E come se McQ dicesse: cari spettatori occidentali medi, borghesi, liberi, benestanti e intellettualmente raffinati, volete l’identificazione? Volete che il vostro regista schiavo negro vi racconti la storia degli schiavi negri per far divertire il padrone bianco? Per farlo stare meglio? VOLETE CHE GLI SUONI IL VIOLINO? Bene vi offro l’unica identificazione possibile, quella che nega qualsiasi funzione consolatoria, qualsiasi senso di appartenenza o accettazione: il rapporto di minoranza, il pdv dello straniero che assiste all’orrore, lo intercetta, ma senza mai diventarne veramente e incondizionatamente parte. Senza mai interiorizzare, senza mai viverlo, senza entrare davvero in comunione con il sistema spirituale che in quel mondo si consuma. Vi mostro uno come voi, uno Zio Tom, un individualista borghese che non ci pensa due volte a scappare miseramente lasciando alle spalle i veri poveracci.
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tatyc
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giovedì 3 settembre 2015
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vicenda delicata e dolorosa della storia...
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Il film è molto toccante, è intenso, tratto da una vicenda delicata e dolorosa della storia americana, sottolinea ancora una volta la crudeltà umana anche nei confronti dei suoi stessi simili e fa comprendere molto bene e in modo chiaro cosa significa essere uno schiavo e come venivano trattati.
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great steven
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martedì 16 giugno 2015
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grandiosa vicenda di corsa verso il riscatto.
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12 ANNI SCHIAVO (USA, 2014) diretto da STEVE MCQUEEN. Interpretato da CHIWETEL EJIOFOR, MICHAEL FASSBENDER, BENEDICT CUMBERBATCH, LUPITA NYONG'O, PAUL DANO, PAUL GIAMATTI, BRAD PITT, SARAH PAULSON, ALFRE WOODARD
Ispirato ad una commovente e lancinante storia vera. Quando corre l’anno 1841, Solomon Northup è un violinista di corte molto apprezzato per il suo talento fuori dal comune. Un mediatore gli fa conoscere due uomini che si spacciano per artisti circensi, i quali gli propongono di aggregarsi alla loro comitiva, ma è solo una copertura: si tratta infatti di negrieri che cercano merce umana da destinare ai campi di cotone dei ricchi proprietari terrieri del Sud statunitense.
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12 ANNI SCHIAVO (USA, 2014) diretto da STEVE MCQUEEN. Interpretato da CHIWETEL EJIOFOR, MICHAEL FASSBENDER, BENEDICT CUMBERBATCH, LUPITA NYONG'O, PAUL DANO, PAUL GIAMATTI, BRAD PITT, SARAH PAULSON, ALFRE WOODARD
Ispirato ad una commovente e lancinante storia vera. Quando corre l’anno 1841, Solomon Northup è un violinista di corte molto apprezzato per il suo talento fuori dal comune. Un mediatore gli fa conoscere due uomini che si spacciano per artisti circensi, i quali gli propongono di aggregarsi alla loro comitiva, ma è solo una copertura: si tratta infatti di negrieri che cercano merce umana da destinare ai campi di cotone dei ricchi proprietari terrieri del Sud statunitense. Imprigionato e costretto a lavorare come schiavo in un latifondo, Solomon assume il nome di Blett (che gli viene coercitivamente imposto dagli schiavisti) e si ritrova suo malgrado a fare i conti con una perdita della libertà personale che sembra irrevocabile e senza rimedio. Continua comunque a suonare il suo strumento prediletto e, finché gli è possibile, finge di essere analfabeta. Ma dopo aver risposto per le rime a un negriero che pretendeva di fargli aggiustare per il verso giusto una casa da costruire, viene destinato ad un’altra piantagione, sotto le direttive del dispotico e insensibile signor Epps. Agli ordini di questo tiranno, Solomon ne deve passare di tutti i colori e soffre parecchio, insieme alla schiava preferita dal ricco e spietato feudatario, la giovane Pepzee. Infine, l’incontro con un viaggiatore canadese abolizionista gli ridarà la speranza che aveva perduto in tutti e dodici gli anni della sua forzata schiavitù, e unitamente a questo aiuto insperato, Solomon scoprirà anche un insospettabile moto di fervida umanità nel suo padrone. Una volta fatti giungere i documenti necessari a testimoniare la sua vera identità e il suo diritto alla libertà, l’uomo di carnagione scura ritorna ad essere libero e si riunisce alla sua famiglia. S. McQueen (da non confondere con l’omonimo attore appassionato di corse automobilistiche che interpretò Bullitt, fra gli altri, e che visse fra il 1930 e il 1980) ha centrato in pieno un bersaglio sinceramente difficile da cogliere in tutto il senso della sua potenza e profondità: ha realizzato un film che affronta il tema della schiavitù con una marcia in più, la quale risiede nel fatto che l’opera si interroga sul perché questo male apparentemente inestirpabile esista sulla Terra, e anche sul motivo per cui debbano essere i neri a pagare sempre il prezzo più alto di una tortura che, nonostante il trascorrere dei secoli, sembra destinata a non esaurire mai la sua crudeltà. Lode, quindi, ad una sceneggiatura (che attinge a piene mani dall’autobiografia che lo stesso Solomon Northup pubblicò nel 1853, poco dopo aver riguadagnato la libertà) che sa mettere in campo pathos, desideri umanitari, speranza, lotta per la sopravvivenza, sarcasmo, voglia di ricominciare e sanguigno ardimento per uno scopo da ottenere che appare lontano anni luce, specialmente in una condizione come quella di uno schiavo vittima di razzismo e obbligato a fare i conti con un potere dittatoriale al quale non può opporsi, pena il ricevimento di sanzioni sempre più cruente e disumane. Ejiofor è uno straordinario protagonista che infonde tutto il suo impegno soprattutto nelle espressioni concitate e disperate di un uomo che sogna, più di ogni altra cosa al mondo, il proprio bene e quello di chi lo circonda, ben lungi dal desiderare che ad un essere umano vengano inflitti inutili e immeritati patimenti. Giustamente si tratta anche di una delle opere cinematografiche più premiate di tutto il 2014: Golden Globe per il miglior film drammatico, un premio BAFTA per C. Ejiofor e tre Oscar (Nyong'o, sceneggiatura non originale, film). Il personaggio di Pitt, che compare solo nell’ultima mezz’ora e in appena due scene, è la chiave di lettura indispensabile per comprendere come, all’interno di un medesimo gruppo etnico, possano sussistere diverse scuole di pensiero e differenti modi di intendere i diritti inalienabili e irrinunciabili di qualunque persona degna di chiamarsi così. Un successo di pubblico ben più che discreto, e anche questo meritevolmente sudato.
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