The Libertine

Lietta Tornabuoni

Non soltanto “The Libertine”: anche debosciato, lascivo, osceno, lussurioso, indecente, triviale, pervertito, laido, scurrile e ogni altro termine del genere: nel film del regista inglese debuttante Laurence Dunmore, tratto dal testo teatrale di Stephen Jeffreys presentato con successo a Londra e poi allo Steppenwolf di Chicago, il teatro di John Malkovich, il personaggio seicentesco di John Wilmot secondo conte di Rochester è talmente unidimensionale, talmente concentrato su sesso e turpiloquio, che si fa fatica a riconoscerlo.
In realtà il secondo conte di Rochester, nato nell’Oxfordshire nel 1647, fu un buon poeta inglese (Einaudi ne pubblica una raccolta di versi), uno dei personaggi chiave dell’esuberante ed elegante corte del re Carlo Il, un combattente valoroso nella guerra contro l’Olanda, favorito del re, preso nell’ultimo tempo da interessi filosofici e religiosi. È una delle figure più rappresentative del clima e della cultura della Restaurazione inglese, epoca di reazione violenta alla dittatura puritana. La vena originale e complessa, la conoscenza dei classici, i procedimenti stilistici lo rendono migliore di altri “poeti cavalieri” del tempo: fu autore di liriche amorose, di versi erotici o licenziosi. Di satire crude e vigorose (“Contro il genere umano”, “Sul nulla”). Morì a 33 anni devastato dalla sifilide: era cieco, non aveva più naso né denti, la faccia era piagata e logora.
Colpa degli eccessi, secondo il film che comincia con il secondo conte di Rochester che masturba la moglie in carrozza, e segue con il personaggio che moltiplica i coiti, è un bevitore compulsivo, mette in scena al teatro di corte un balletto di ragazze in tunica abbracciate a grandi falli mentre un fallo gigantesco è montato su due ruote come un cannone. Girata con la macchina a mano, a luce naturale o alla luce delle candele, in toni oscuri che accentuano l’aurea di decadenza, la biografia finta non è granché: ma il personaggio del titolo è interessante e l’interprete Johnny Depp è magnifico.
Da L'Espresso, 23 febbraio 2006


di Lietta Tornabuoni, 23 febbraio 2006