Germania, Aprile 1945. Gli ultimi combattimenti della seconda guerra mondiale dilaniano le pianure tedesche. Un esercito alleato, stanco e disilluso, combatte campo per campo, casa per casa, per conquistare ogni metro utile alla vittoria contro il nazismo. Fury è la casa di cinque carristi veterani, partiti 4 anni prima dall'Africa. Veterani induriti dalla guerra, dall'orrore, dalla sofferenza, avanzano verso Berlino, una città dopo l'altra, una battaglia dopo l'altra. A muoverli non sono più gli ideali, come per il battaglione incaricato di salvare il soldato Ryan, né la voglia di eroismo, ormai lontano ricordo dei film con Robert Mitchum o John Wayne ma solo l'odio per il nemico e il bisogno di sopravvivere, costi quel che costi.
Perso il mitragliere, sostituito da un novello arruolato di formazione dattilografo, il sergente Wardaddy (Brad Pitt) porterà Fury verso la sua ultima battaglia, verso un destino già tracciato. Né eroi, né "cattivi", i personaggi raccontati da David Ayer smitizzano (ma senza distruggerlo) l'eroe americano, in quello che sembra un riassunto finale, una sorta di Bignami, di tutti i racconti di guerra di Hollywood, da "Il sergente York" fino al Soldato Ryan, passando da "Platoon" e "The Hurt Locker". Avanzano, Wardaddy e i suoi uomini, attrraverso il dolore della guerra, le soddisfazioni delle battaglie vinte e la gratitudine (verso il cielo? Il destino? O Dio?) di essere ancora, semplicemente, in vita.. A muoverli è un misto di dovere, sete di vendetta, imbruttimento a seguito delle atrocità di cui essi sono testimoni: una dolorosa discesa negli inferi a cui viene sottoposto suo malgrado il giovano dattilografo Norman (Logan Lerman), diventato mitragliere del carro forse per un errore burocratico (ma seguiamo tutti un sentiero tracciato dal destino) e che imparerà dolorosamente che per sopravvivere in guerra è necessario fare compromessi coi propri ideali e le proprie convinzioni.
Fury è un film di guerra insolito, fuori dai canoni classici. Claustrofobico ma appassionante, eroico ma non troppo, sembra ridisegnare i confini dei film sulla seconda guerra mondiale sin dalla premessa, introducendo lo spettatore nel periodo più crepuscolare e per certi versi meno conosciuto del conflitto. Truculento nella sua volontà di realismo, con un finale inverosimile dai tempi oniricamente dilattati, "Fury" appare come un oggetto insolito che malgrado tutto piace. Piace soprattutto la descrizione di quell' impero ormai finito e sul baratro del'inferno che è la Germania nazista del 1945 e che, nella sua romantica quanto macabra caduta, cerca di trascinare con sé l'intero universo.
La salvezza (intesa sia come salvezza fisica, la sopravvivenza in guerra, che come salvezza dell'anima), tema ricorrente e esplicito nelle parole del meccanico Boyd "Bible" Swan (un bravissimo LaBoeuf), diventa allora una questione di scelta individuale e di gruppo (o meglio, di comunità). David Ayer sembra voler dire che non si può combattere il male assoluto senza sporcarsi le mani ma che in certi momenti il destino ci guida verso degli incroci in cui le strade tra il bene e il male si dividono: quello è il momento di fare la scelta giusta, indipendentemente dall'atteggiamento (anche reprimevole) che si può avere avuto tra un incrocio e l'altro. Gli uomini di Fury sapranno fare la scelta giusta.
Dispiace qualche ingenuità tecnica (la cittadina tedesca che pare di cartapesta, una notte che scende precipitosamente sulla battaglia finale forse per risparmiare qualche comparsa e un po' di effetti speciali) che sembra sottolineare un budget forse un po' stretto.
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