FURY (USA, 2015) diretto da DAVID AYER. Interpretato da BRAD PITT, SHIA LABEOUF, LOGAN LERMAN, MICHAEL PENA, JON BERNTHAL, JIM PARRACK, XAVIER SAMUEL, JASON ISAACS, SCOTT EASTWOOD, KEVIN VANCE, ALICIA VON RITTBERG, ANAMARIA MARINCA
Aprile 1945. La seconda guerra mondiale volge ormai al termine, ma la Germania nazista è dura a tirare le cuoia. Mentre gli Alleati conducono l’avanzata conclusiva in Europa, il sergente Don "Wardaddy" Collier, un militare dell’esercito statunitense forgiato e temprato dal conflitto armato, guida un carro armato Sherman, battezzato Fury, con un equipaggio di quattro soldati (Boyd "Bibbia" Swan, il caporale messicano Trini "Gordo" Garcia, Grady "Coon-Ass" Travis e il giovanissimo aiuto conducente, ex dattilografo, Norman "Macchina" Ellison) in una missione suicida dietro le linee nemiche. In netta inferiorità numerica e con la summenzionata matricola nel plotone, Wardaddy e i suoi uomini, schiacciati anche dalla superiore forza e pesantezza dei carri armati rivali, si trovano in una situazione disperata, nel vano ma eroico tentativo di infliggere il colpo di grazia al nazismo e alla sua ideologia militarista. Una pellicola di ambiente bellico che ha anima, cuore e talento e il dono pressoché innato di non giustificare la guerra, né di far credere che la combattano degli eroi: gli uomini di Wardaddy (un Pitt dal capello corto, leggermente barbuto, a suo agio straordinario nelle vesti del sergente un po’ bacchettone, ma pur sempre integerrimo e ligio ai doveri della guerra, tanto da meritare il suddetto soprannome) non sono eroi che la storia ha trasformato in leggende, ma uomini comuni che hanno abbracciato ideali pacifici cui ha poi pensato la Storia (questa volta con la S maiuscola) stessa a rendere violenti, come spiega Wardaddy al giovane e ancora inesperto iniziato all’arte del combattimento. Il film non è comunque un panegirico dell’eroismo militare, ma piuttosto un coacervo di sequenze che denunciano la brutalità del conflitto armato, fornendo immagini molto forti tra fango, avanzamenti lenti e faticosi, muraglie, sterpaglie, conflitti d’interesse, mappe di bombardamento da seguire per filo e per segno, pioggia battente e malumori fra gli stessi commilitoni. Forse la metamorfosi di L. Lerman da dattilografo spaurito e timido ad assassino preparato e spietato poteva essere resa meglio mediante non una concentrazione di spari su uno "sporco manipolo di nazisti", ma probabilmente attraverso un indottrinamento verbale che però lasciasse spazio anche ai fatti concreti che la guerra richiede di mettere in atto. Esemplare, comunque, il passaggio delle due donne tedesche che vengono adescate da Pitt e Lerman, rispettivamente per un uovo strapazzato e per un contatto fisico ravvicinato, e che poi rimangono sepolte sotto il bombardamento che segue con feroce immediatezza all’evacuazione della città minata dall’avanzata statunitense in terra nazista. Lodi anche al reparto maschile, con un LaBeouf affezionato tanto alla Bibbia quanto al suo mitra, un Peňa che alterna lo spagnolo all’inglese in base al suo umore e si concentra negli scontri a fuoco ravvicinato con la rapidità e la precisione di un caporale che si rispetti con annessi e connessi e un Bernthal lievemente avvinazzato che prende per i fondelli i compagni di carro armato, in particolar modo il timoroso Lerman, ma poi è capace anche di slanci generosi e fuoriuscite comiche, diventando amico della matricola e suo protettore fino al decisivo finale in cui Pitt, ferito gravemente, lo chiama figliolo e gli offre l’ultima, ma salvifica, possibilità di mettersi al riparo da una distruzione imminente che finisce per falciare irrimediabilmente gli altri quattro soldati addetti alla guida del carro armato. Accuratamente evitati i discorsi politici e le derivazioni sataniche: avrebbero stonato col contesto circostante di denuncia, impegno sociale e rifiuto della violenza in favore della diplomazia, benché poi si percepisca come la soluzione più estrema divenga il mezzo risolutivo che più dipana i problemi e meglio sbroglia le matasse quando le situazioni si fanno davvero pesanti e pericolose. Regia dignitosa, montaggio attento al dosaggio adrenalinico, scenografia convincente, sceneggiatura robusta e solida, musiche rarefatte nei passaggi più dolorosi, ma decisamente martellanti in quelli dalla struttura marmorea e coriacea. Nessuna menzione agli Oscar per il semplice fatto che è un film di guerra recente come tanti: ma ha il merito insostituibile e innegabile di raccontarla con l’occhio stralunato ma pur sempre vigile dell’analista che osserva i fenomeni senza giustificarli, ma dando una scorsa alla temerarietà degli uomini che li popolarono e che li resero di importanza storica magari senza neppure rendersene conto, ma agendo in nome della libertà di espressione portando la pace col mezzo guerresco e gestendo una situazione di inferiorità strategica con il coraggio e la pazienza che solo gli autentici combattenti sanno dimostrare quando intervengono sul campo di battaglia.
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