La dolce vita

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Un film di Federico Fellini. Con Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Anouk Aim?e, Yvonne Furneaux, Alain Cuny.
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Commedia, Ratings: Kids+16, b/n durata 173 min. - Italia, Francia 1960. - Cineteca di Bologna MYMONETRO La dolce vita * * * * 1/2 valutazione media: 4,64 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Favoloso e terribile diario di 7 giorni mondani Valutazione 5 stelle su cinque

di Paolo 67


Feedback: 9827 | altri commenti e recensioni di Paolo 67
martedì 31 gennaio 2012

Disse Oreste Del Buono, uno dei pochissimi critici che Fellini salvava :“LA DOLCE VITA più che un film è un pezzo della vita di chi lo guarda. Dura tre ore, ma sarebbe lo stesso ne durasse sei o due”. Fellini, le polemiche lo dimostrarono, era più avanti sia politicamente che esteticamente. Venne accusato di essere ossessionato dal sesso e di ingigantire episodi marginali da provinciale inurbato. Che racconta il film? Il mistero della natura, le incognite del progresso, le incertezze e le contraddittorietà dell'uomo, il caos e la confusione del mondo. Le intepretazioni favorevoli del film sorpresero quando non inquietarono l'autore. Non si riteneva un neodecadente. Il film è così ricco da giustificare praticamente ogni approccio. Quello che il film mostra è la necessità di uscire dai condizionamenti. Esso interpretava anche gli entusiasmi di una stagione di passaggio dal dogmatismo alle scienze umane, dalle illusioni sbagliate (di cui il film mostra lo sfacelo dei risultati) a una più adulta consapevolezza (c'è chi ha detto che con “La dolce vita” il cinema italiano è diventato adulto e chi (Morando Morandini) laico e democratico. Non è stato stranamente mai dato molto rilievo al personaggio dell'amante di Marcello interpretata da Yvonne Furneaux, l'unico, con la sua “animalità” (tutti gli altri sono come delle apparizioni chimeriche, problematiche, fantasmatiche al protagonista), concreto e vitale pur nelle sue passioni elementari. Un'altro equivoco del film, di cui Mastroianni non si è più liberato, è l'interpretazione dongiovannesca del suo personaggio, un “seduttore” che in realtà non seduce nessuno, ma viene costantemente preso in giro e usato dalle donne. Anche il personaggio di Paola non è necessariamente simbolo del soprannaturale. Non ci sono segni obbligatori di questo. Si potrebbe indicare una soluzione più laica: il protagonista poteva ritrovare un senso della vita insegnando alla ragazza a scrivere a macchina, cosa che sapeva lei avrebbe voluto imparare, superando così l'angoscia della propria condizione -che è esistenziale in senso umano prima che storico- non solo nel sentirsi utile a qualcuno ma anche nel sopravvivere a se stesso attraverso quello che si fa/che si è fatto (tema felliniano). Il protagonista non doveva avere una grande personalità, per questo Fellini scelse Mastroianni, ma anche perchè la sua aria da bravo ragazzo che ispirava fiducia e simpatia gli avrebbe consentito l'attraversamento di una giungla più o meno allucinante che è il territorio del film, dove il protagonista rischia di perdersi nella sua disponibilità ad ogni avventura ma è capace anche di galleggiare sulla palude della disgregazione. La sequenza dove l'orrore è maggiore è l'”orgia” nella casa del nuovo ricco, ma il logo del film è giocoso e magico: Anita nella Fontana di Trevi, a confermare il significato complessivo dell'operazione, nonostante tutto sereno. A Fellini l'intellettualità raziocinante doveva sembrare arida (vedi la figura -o la fine- che fa l'intellettuale in tutti i suoi film); gli intellettuali, in genere grandi ammiratori del film non potevano accettare la funesta figura di Steiner, che rivela anche la sua inconsistenza e da cui Marcello si sente in qualche modo “tradito” oltre che tragicamente abbandonato. Stilisticamente il film varia come varia di tono, trasfigurando nella fiaba con elementi di irrealtà innestati in contesti fortemente realistici. Molto importante in questo senso il lavoro di Gherardi alle scenografie e ai costumi (che furono premiati con l'Oscar). Il giornale in pellicola assurge così alla dimensione del mito e della fiaba.

Gli attori si sono tutti innamorati dei personaggi e si sono divertiti molto a lavorare con Fellini. La loro allegria ha contagiato le scene, rendendo quello che Fellini voleva evidenziare: cioè l'allegria, persino la gioia anche in una società in disfacimento. Fellini non era animato, non è mai stato animato da sdegni. Non aveva intenzione di criticare aspramente. Certo la sua visione della realtà è disincantata. Per comprendere il film bisogna considerare il recupero del sentimento e della sensualità rispetto all'intelletto e alla coscienza. Il film invita all'abbandono alla circolarità degli eventi (il Marcello de LA DOLCE VITA è secondo alcune interpretazioni la continuazione del Guido di OTTO E MEZZO e non il preludio) e all'indulgenza nel giudicare il prossimo. L'originalità de LA DOLCE VITA sta nella sua costruzione ad affresco, a blocchi giustapposti, affidandosi alla potenza e alla suggestione delle immagini. Marcello Rubini è un uomo complesso, ambiguo, debole, vile, crudele, ma anche infantilmente buono e umano, intelligente, cinico ma abbastanza sensibile, ingenuo approfittatore e insieme vittima di tutte le situazioni. Una specie di tramite neutrale che rappresentava la società italiana del tempo, coi suoi riti stanchi, annoiati, meccanici, spettrali. Alla penna di Ennio Flaiano va addebitato quanto c'è di impietosamente satirico nel film, mentre Tullio Pinelli fornisce un fondamentale contributo alla trasfigurazione nel fantastico. Ma un apporto piuttosto importante lo diede Brunello Rondi (tra l'inizio della gelosia di Flaiano), con Fellini suggestionato dai suoi racconti dai trarrà ispirazione per interi episodi. La musica di Nino Rota contribuisce a rendere il senso levantino della grande città (raffinatissimo il cinismo del commento musicale della riuscitissima sequenza dei nobili -che escono peraltro dal film meno peggio di altri- ispirato a”Make the knife” di Kurt Weill, una canzone su un criminale ispiratrice anche di “Goldfinger”). La Roma di Fellini è una città donna. Madre e prostituta (aperta a tutti). Il personaggio più moderno (e più rappresentativo della “dolce vita”, tanto è vero che il protagonista la rincontra circolarmente a film avanzato ed è la prima donna con cui parla all'inizio del film) è Maddalena, l'ereditiera, completamente corrotta, simbolo di una civiltà ricca e opulenta che può avere tutto e non sa quel che vuole. In generale sui i riti che sono presenti nel film aleggia il senso della morte (richiamata ad esempio in senso subliminale dall'aspetto tombale dei night club). Affascinante e spettrale la figura di Nico Otzak (cioè Christa Paffgen, una delle muse di Andy Wahrol) che introduce Marcello nell'incredibile mondo degli aristocratici. Riguardo a quello che ho letto di ciò che è stato scritto, niente può concludere meglio che citare Enrico Ghezzi (da “Paura e desiderio”, Bompiani, 2008): “La dolce vita”(...) accoglie di nuovo, (…) qualsiasi domanda di oggi (...) troppo più avanti rispetto a qualsiasi regista esordiente italiano di questi giorni (…)” (da “Fellini della memoria” La casa Usher, 1983).

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