Anno | 2024 |
Genere | Documentario |
Produzione | Francia |
Durata | 105 minuti |
Regia di | Raoul Peck |
Attori | Lakeith Stanfield . |
Tag | Da vedere 2024 |
MYmonetro | 3,09 su 4 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento martedì 21 maggio 2024
Vita, lavoro e morte di un fotografo sudafricano che documentò l'apartheid e dal 1966 visse da esule a New York, vittima fino all'ultimo del razzismo.
CONSIGLIATO SÌ
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Ernest Cole è stato un fotografo sudafricano, nato nel 1940 nella provincia di Transvaal e morto a New York nel 1990. In vita ha pubblicato un solo libro, "House of Bondage", uscito nel 1967 e poi bandito dal governo, con cui ha documentato l'orrore quotidiano dell'apartheid. Fuggito dal suo paese nel '66, Cole non ha più fatto ritorno a casa e ha vissuto da esule a New York, lasciando la fotografia diversi anni prima della morte. Raoul Peck ne costruisce la biografia usando principalmente gli scatti (più di 60.000!) ritrovati nel 2017 nel caveau di una banca di Stoccolma, aggiungendovi un commento in prima persona dello stesso Cole, tratti da lettere o scritti a partire da riflessioni generati dalle sue immagini.
Gli scatti di Cole, in buona parte in bianco e nero e segnati da un crudo realismo, costruiscono il tessuto visivo del film e ne dettano il tono tragico e malinconico.
Diversamente da quanto fatto con James Baldwin in I'm Not Your Negro, Raoul Peck ha costruito il film su Ernest Cole in modo classico, affidandosi quasi unicamente ai suoi scatti. La scoperta di nuovo straordinario materiale e l'esigenza di far scoprire al pubblico un artista poco noto hanno convinto il regista a fare un passo indietro e a nascondersi dietro la forza evocativa e testimoniale di opere che portano impressa la traccia di una violenza universale. L'approccio di Peck non è rigoroso, ma sfrutta anzi fotografie, filmati d'archivio, canzoni e didascalie per restituire la condizione esistenziale del suo protagonista (nel cui volto e nel cui unico filmato esistente si percepisce un dolore insanabile), la tragedia dell'apartheid in Sud Africa e l'evoluzione di una parabola storica che ha portato alla pacificazione fra due popoli, lasciando però ferite indelebili nelle vittime. La stessa vita di Cole, il suo destino di nero discriminato, di esule e homeless, è il simbolo incarnato dell'apartheid. I suoi scatti sono la prova di una vergogna collettiva e insieme la sintesi di una vicenda storica, il suo riverberare nel presente di chi le guarda (e non mancano rimandi alle recenti proteste che in Sud Africa hanno riportato a scontri fra bianchi e neri).
Gli scatti di "House of Bondage", il libro che Cole realizzò raccogliendo fotografie realizzate fin dagli anni '50, e quelli ritrovati a Stoccolma raccontano momenti apparentemente banali della vita sotto l'apartheid (scene di strada, sguardi, passaggi di persone, strade, baracche di neri, quartieri di bianchi), e proprio per questo sono agghiaccianti: mostrando posture e atteggiamenti, immortalano il razzismo nella sua evidenza inappellabile. «Una sola vita», dice la voce di Cole, «differenti realtà»: la realtà di chi ha il potere e quella di chi ne è schiacciato, tanto in Sud Africa quanto negli Stati Uniti, dove Cole sperimentò una libertà impensabile («Fotografavo coppie miste non perché ne ero affascinato, ma perché ero sollevato!»), ma continuò a vivere sulla propria pelle il razzismo dei bianchi, la sua normalità (e mette la pelle d'oca sentire il presidente del Sud Africa Hendrik Frensch Verwoerd, assassinato nel 1966, sostenere che a suo dire l'apartheid era «una forma di buon vicinato..., pur di accettare che le persone non sono uguali fra loro»). Il film di Peck usa le fotografie accumulandone i segni, a volte spiegandoli, altre lasciandoli all'interpretazione dello spettatore, e se il messaggio politico è chiaro, il rischio è quello della saturazione. La malinconia di Cole, la sua espressione triste, la sua estraneità alla società, la sua tragedia personale (morì di cancro solo e povero), emergono bene, anche se alla lunga il discorso si fa ripetitivo. La cosa più interessante sarebbe scoprire chi e perché archiviò il materiale fotografico di Cole in una banca di Stoccolma, ma da come si viene a sapere dal nipote del fotografo e dai titoli di coda, al momento nessuno lo sa: «non m'importa più», dice del resto il finto Cole, «ora che le foto sono tornate a casa loro, ma la ferità resterà per sempre».
Negli anni lo stile del Peck documentarista si è fatto sempre più affine al gusto statunitense per il sensazionalismo del dispositivo, basato su una storia forte con generose dosi di enfasi attorno. Il racconto del fotografo Ernest Cole, l'uomo che ha rivelato al mondo gli orrori dell'apartheid sudafricano, mentre i potenti distoglievano lo sguardo, non fa eccezione.
Uscito nel 1967 negli Stati Uniti e un anno dopo a Londra, House of Bondage ("la casa della schiavitù") è considerato uno dei documenti più incisivi sull'apartheid sudafricano. È una raccolta di scatti che Ernest Cole, nato a Pretoria nel 1940, testimone oculare e vittima della politica di segregazione razziale, pubblicò a 27 anni, ispirandosi al lavoro analogo di Henri Cartier-Bresson sulla città [...] Vai alla recensione »
Nel film c'è un senso condensabile in "assicurati di osservare davvero quello che vedi" e a tal proposito ho cercato di lavorare su più livelli. Vedrete che in molte delle immagini del film il soggetto guarda in camera. Si tratta di guardarsi a vicenda, allo stesso modo in cui Baldwin dice: "Non eravate voi a guardarci a vista, eravamo noi a dovervi riconoscere".