Lo chiamavano Jeeg Robot

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Calvario d'un mascalzone investito di superpoteri. Valutazione 3 stelle su cinque

di Great Steven


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mercoledì 18 gennaio 2017

 

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT (IT, 2016) diretto da GABRIELE MAINETTI. Interpretato da CLAUDIO SANTAMARIA, LUCA MARINELLI, ILENIA PASTORELLI, STEFANO AMBROGI, ANTONIA TRUPPO

Enzo Ceccotti, delinquente di infimo livello, appena scarcerato, è già ricercato dalla polizia per un furtarello non meglio specificato. Coi piedipiatti alle calcagna, si rifugia nel Tevere, dove entra in contatto con una misteriosa sostanza radioattiva che gli procura inesplicabili poteri sovrumani, fra cui spicca soprattutto una forza erculea. Ancora all’oscuro dei poteri acquisiti, conosce Sergio, capo muratore di un cantiere edile dove lavorano operai stranieri, e ne conosce la figlia Alessia, mentalmente disturbata e totalmente assorbita dai cartoni animati giapponesi di cui possiede l’intera collezione, soprattutto Jeeg Robot d’Acciaio. In contrasto con Sergio c’è la gang malavitosa dello Zingaro, capobanda di piccola categoria ma deciso a "fare il botto" provocando un attentato dinamitardo allo Stadio Olimpico durante il derby Roma-Lazio e a sua volta nemico della cosca di mascalzoni napoletani che da tanto tempo gli mettono i bastoni fra le ruote. Un incidente al cantiere costa la vita a Sergio, che muore sotto gli occhi di Enzo, il quale precipita dall’edificio in costruzione ma sopravvive, e lì scopre di possedere i superpoteri. Quando anche Alessia ne viene a conoscenza, crede di riconoscere in lui un magico eroe destinato a salvare l’umanità, ed Enzo, per quanto prenda per corbellerie le fantasie della ragazza, si affeziona a lei e decide di proteggerla, pur scegliendo di utilizzare le sue facoltà extrasensiorali per scopi criminosi. Telecamere piazzate in giro per Roma ritraggono l’uomo dalla forza straordinaria rapinare un Bancomat staccandolo letteralmente dal muro e far deragliare un tram sulla ferrovia, e anche lo Zingaro si mette sulle sue tracce e, riuscito a catturarlo con lo scopo di corromperlo per metterlo al servizio dei suoi intrighi, minaccia di morte Alessia, ma senza aver fatto i conti coi napoletani, capeggiati dalla sua nemica giurata Nunzia. In una sparatoria in riva al Tevere, Alessia e Nunzia rimangono uccise, e lo Zingaro finisce con le fiamme sul corpo a morire incendiato nel fiume capitolino. Deciso a vendicare Sergio e la figlia, vittime degli attriti fra le due bande, Enzo cambia bandiera e decide di mettere il suo potenziale al servizio della giustizia, ma non sa che lo Zingaro, contagiato anch’egli dal materiale radioattivo, ha ora i suoi stessi poteri e può dunque affrontarlo ad armi pari. L’esplosione all’Olimpico sarà scongiurata soltanto grazie all’intervento valoroso e tempestivo di Enzo Ceccotti, ormai calatosi con convinzione nei patti di Jeeg Robot. È un esempio quasi unico di film fantascientifico italiano: altri esempi si possono ricondurre all’ottimo Nirvana (1997) di Gabriele Salvatores, o al più recente Il ragazzo invisibile (2014), sempre dello stesso regista ma con impressioni peggiori ricevute da parte dei critici, ma il campo, a questo punto, si restringe notevolmente. Ed ecco che la pellicola di G. Mainetti, vincitrice di ben sette David di Donatello, crea ambienti e spazi e vi fa muovere all’interno un protagonista ombroso e introverso, determinato e violento, ma animato da uno spirito e da una sete di giustizia che lasciano da parte le inclinazioni donchisciottesche per avvicinarsi ad un’indole avventurosa che mescola molti, ad esempio, supereroi della Marvel (per personalità affini al carattere principale, si possono annoverare Capitan America, Spider-Man e perfino Wolverine). Questo malandrino di quart’ordine che comincia semplicemente scappando da chi cerca di accalappiarlo e riceve per caso un dono da non si sa dove, dono non propriamente finalizzato ma carico comunque di un libero arbitrio il cui padrone deve utilizzare nel più opportuno dei modi, si trasforma in paladino dei deboli e dei bisognosi anche e soprattutto sulla spinta della passione sì autoreferenziale e maniacale, ma pur sempre decisiva, della ragazza (I. Pastorelli, cui il film ha fatto da trampolino e apripista) che se innamora platonicamente e gli chiede di compiere il dovere di ogni eroe che detenga capacità fuori dalla norma. Lo sfondo di una Roma nera, quadrata, piena e strapiena di edifici in cemento squadrati, riversa nel disordine, tormentata dagli affari gangsteristici di sangue e droga e imputridita dalle conseguenze stringenti della malvivenza, è perfetto per ambientare la vicenda di un antieroe (perché in fondo così è) che scopre il lato caritatevole della propria identità quando ottiene qualcosa che prima non aveva. E non è la superforza o la velocità incredibile: è un obiettivo da concretizzare dal quale non è però lui a trarne vantaggio, ma gli oppressi che salva con le sue azioni quasi miracolose. Vero, anche, che lo Zingaro è un antagonista, relativamente al cinema italiano degli ultimi anni, davvero anticonformista e improbabile, ma la carica di autoironia, il disprezzo per il pericolo e la mentalità da schizofrenico conferitigli dal suo attore (bravo L. Marinelli) lo salvano dal diventare una macchietta e lo tramutano in un cattivo coi fiocchi e controfiocchi, capace di fronteggiare chi lo osteggia in più di un’occasione e per giunta da due piani combattivi differenti, come la trama stessa del film dimostra. Montaggio concitato e asserragliato, colonna sonora aggressiva, violenza caricata soltanto nei momenti doverosi e riprese al rallentatore scelte con una fantasiosa alternanza, sono altri quattro elementi che vanno a completare un quadro tecnico di tutto rispetto, facendo di Lo chiamavano Jeeg Robot un blockbuster che può affascinare anche la critica (e infatti il pubblico non lo ha premiato quanto i distributori si aspettavano), in quanto si dichiara un prodotto fruibile da un target adulto al quale piacciano le mescolanze fra generi, le storie di riscatto e le rivendicazioni del cinema nostrano nei confronti dell’imperante science-fiction d’oltreoceano.

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