Cabaret

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Un film di Bob Fosse. Con Helmut Griem, Liza Minnelli, Michael York, Marisa Berenson, Joel Grey.
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Drammatico, durata 128 min. - USA 1972. MYMONETRO Cabaret * * * * - valutazione media: 4,38 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Si alzi il sipario e lo spettacolo prenda vita! Valutazione 4 stelle su cinque

di Great Steven


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giovedì 16 settembre 2021

CABARET (USA, 1972) diretto da BOB FOSSE. Con LIZA MINNELLI, MICHAEL YORK, HELMUT GRIEM, JOEL GREY, FRITZ WEPPER, MARISA BERENSON, ELISABETH NEUMANN-VIERTEL ● A Berlino, nel 1931, arriva il giovane studente britannico di lingue straniere Brian Roberts, che trova alloggio presso una pensione in cui vivono ballerine di vaudeville. Ben presto il timido studente si innamora, ricambiato, di Sally Bowles, vulcanica e spregiudicata soubrette che può vantare un numero da assoluta protagonista nel cabaret in cui si esibisce. Nella Repubblica di Weimar dove i membri dell’ormai inquietante Partito Nazionalsocialista cominciano le loro violente manifestazioni antisemite, i due conoscono per caso Maximilian von Heune, ricco aristocratico tedesco i cui modi raffinati e suadenti catturano prima l’attenzione di lei e poi anche quella del ragazzo. In questo baldanzoso triangolo amoroso, il barone e i due giovani trascorrono insieme ore allegre all’insegna della baldoria, finché Max si rivela per quello che è: un approfittatore di professione che adopera gli amanti a proprio uso e consumo per divertirsi e poi liquidarli riempiendoli di denaro e costosi regali. Nel frattempo le incursioni naziste si fanno sempre più frequenti e coinvolgono anche il Kit-Kat (nome del cabaret dove Sally lavora), considerato un covo di viziosi degeneri; non a caso, un amico ebreo dei due giovani, Fritz, è costretto a sposarsi in segreto con la donna che ama (il cui corteggiamento gli è costato non poca fatica), anch’ella ebrea, mentre fuori dalla chiesa i raid contraerei infuriano. Infine, quando Brian scopre che la pelliccia di Sally, regalatale da Max, è scomparsa, la costringe a sputar fuori un’amara verità: la ragazza, incinta di un bambino senza sapere se fosse di Brian o di Max, ha abortito pagando l’atto coi soldi del dono. Poiché la ballerina non si vede come casalinga rassegnata a svolgere le faccende domestiche e a crescere figli, il loro rapporto si scioglie: Brian riparte per l’Inghilterra lasciandosi dietro una Berlino che non esiste più, mentre Sally tenterà di realizzare il suo sogno di attrice. La sceneggiatura di Jay Preston Allen mescola i romanzi di Christopher Isherwood – Sally Bowles (1937); Addio a Berlino (1939) – con la pièce teatrale I Am a Camera di J. Van Draten e l’omonimo musical di John Kander, scritto dallo stesso Preston Allen con Hugh Wheeler, avvalorato dalla coreografia di Bob Fosse. Il musical debuttò per la prima volta a Broadway nel ‘66. Con colonna sonora di Ralph Burns, fu la seconda regia di B. Fosse e ottenne in tutto il mondo un ampio successo di pubblico, riscuotendo pressoché ovunque consensi molto favorevoli. Tema centrale della storia è la relazione amorosa fra la disinibita Sally, che si mantiene facendo la cantante e, all’occorrenza, anche la prostituta, e l’ingenuo intellettuale inglese Brian, che si lascia sedurre da lei e pur di non perderla giunge a qualunque compromesso. Le loro vicende private, e quelle di vari personaggi secondari, si stagliano sullo sfondo della Germania decadente dei primi anni ’30 e del mondo frenetico del cabaret: gli spettatori si cullano e s’illudono nell’atmosfera fatua e travolgente dello spettacolo burlesco, il che impedisce loro, troppo occupati mentalmente dalla superficialità e dalla frivolezza, di accorgersi che il nazismo sta prendendo piede a una velocità preoccupante. Gli inni che arridono a Hitler, i pestaggi brutali per le strade, le persecuzioni antisemite si diffondono come un cancro per tutto il Paese, e l’alba di un’imminente tragedia diventa giorno dopo giorno una realtà tragicamente concreta. Il personaggio di Max è un’evidente metafora del disfacimento morale di una società reietta, perbenista e opportunista che si china ormai verso l’abisso. La straordinaria regia di Fosse dipinge una pennellata drammatica all’intera narrazione, grazie anche alla cupa fotografia di Geoffrey Unsworth: i due contributi tecnici, accoppiati, introducono nelle sequenze precisi riferimenti alla pittura espressionista tedesca; uno su tutti: l’immagine finale che, inquadratura dopo inquadratura, si trasforma nella sagoma della svastica nazista. Magistrale interpretazione di L. Minnelli, figlia d’arte del regista Vincente e di Judy Garland, qui stupenda nell’esecuzione dei brani Cabaret e Money, Money, affiancata dall’ambiguo maestro di cerimonie (J. Grey), mestierante dal ghigno mefistofelico che invita i clienti a dimenticare le preoccupazioni e immergersi nell’ubriacatura musicale del cabaret, dove ogni cosa è meravigliosa e perfino la guerra (ovviamente quella appena trascorsa) sembra solo uno sbiadito ricordo. Accanto a questi personaggi da sfilata carnevalesca, i grigi ruoli istituzionali ricoperti da M. York (efficace recitazione in bilico tra pathos e umore fosco) e F. Webber (un interessante carattere di professore in preda ai dubbi) fungono da perfetta controparte nel contesto di un ambiente soggetto a profondi ribaltamenti politico-sociali, dove la tentazione sembra essere l’unico antidoto alla noia come, del resto, alla violenza e all’intolleranza. 8 Oscar: regia, fotografia, attrice protagonista (Minnelli), attore non protagonista (Grey), direzione musicale (Ralph Burns), scenografie (R. Zehetbauer, H. J. Kiebach, H. Strabel), suono (R. Knudson e D. Hildyard) e montaggio (D. Bretherton). Strehler lo vide quattro volte. Vale la pena di guardarlo e soprattutto di ascoltarlo bene.  

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