Anno | 2014 |
Genere | Documentario |
Produzione | Italia |
Durata | 80 minuti |
Regia di | Filippo Vendemmiati |
MYmonetro | 3,17 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 16 ottobre 2014
CONSIGLIATO SÌ
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Carcere di Dozza, Bologna, oggi. In un'area della prigione precedentemente adibita a palestra un gruppo di operai specializzati in pensione addestra 14 detenuti ad assemblare le componenti di un macchinario industriale. È il progetto FID (Fare Impresa in Dozza), finalizzato all'assunzione alla fine della pena (il contratto esclude gli ergastolani ed è diretto solo a chi ha pene superiori a 5 anni). Oltre ad essere un'occasione occupazionale, si rivela uno strumento di socializzazione tra i detenuti e al tempo stesso tra tutor e apprendisti. Anche se tutti hanno qualcosa da imparare, in uno scambio complicato e sorprendente.
La macchina da presa del giornalista Filippo Vendemmiati (È stato morto un ragazzo su Federico Aldrovandi, Non mi avete convinto su Pietro Ingrao, a Venezia rispettivamente nel 2010 e 2012) si adatta agli spazi angusti del carcere e ad un set non modificabile e di risulta. Si conforma con rispetto alla sua luce artificiale, alla fissità delle postazioni, alla ripetitività di macchine e movimenti manuali. Dà la parola solo alle persone coinvolte, evitando accuratamente di descrivere i motivi della detenzione, e nominando tutti i coinvolti solo nei titoli di coda, per tendere alla maggior astrazione possibile ed evitare (pre)giudizi. Senza tirare in ballo le istituzioni, solo i sindacati sono evocati in un dialogo, poi da una scritta su una felpa. I dialoghi hanno un sapore non estemporaneo né casuale ma neppure troppo artefatto, grazie alla profonda umanità delle persone intervistate.
Accanto a loro, gli strumenti di lavoro, dal più piccolo al più grande: si ragiona delle dimensioni delle viti e ci si scervella sull'esploso (la rappresentazione grafica che scompone la macchina nei dettagli), l'ingrassaggio dei pezzi, la rifinitura di una punta metallica. Dalle viti alla vita, come dice il sottotitolo, dimensione esistenziale e pratica s'incontrano e interagiscono; lavoro e costruzione di sé appaiono ambiti vicini, accomunati dal richiedere pazienza, umiltà, intelligenza. I tradizionali simboli di un impiego - la busta paga, l'indumento col logo aziendale, la pausa caffè, l'ingresso e l'uscita - acquistano luce nuova, in questa documentazione di un esempio virtuoso che ci si augura sia presto adottato da altre realtà imprenditoriali. Il dialetto esuberante dei seniores che ricorda le locuzioni colorite di Pier Luigi Bersani («la testa non è il distanziale per le orecchie!») spezzano la monotonia mentre le musiche dei Têtes de Bois trasfigurano la linea di produzione in un contesto sacro; in effetti i tutor parlano del lavoro quasi come di una religione e i detenuti come un'alternativa esistenziale che ha del miracoloso.
Partendo dall'idea semplice ed efficace del titolo, Meno male è lunedì trasmette - anche a chi non è stato costretto per anni a vivere in cella per 22 ore al giorno - la gratificante inversione, per i detenuti, tra il ritmo lavorativo settimanale degli occupati "normali" e il fine settimana di non attività. Nobilitando l'uomo che lavora.