“The artist” narra la storia di George Valentin, divo del cinema muto degli anni venti americani. Nel 1927 Valentin è al’apice del successo e della carriera, e i suoi film impazzano nelle sale cinematografiche. L’attore, in mezzo alla folla che lo acclama, conosce Peppy Miller, una ragazza che poi, casualmente, ritroverà come ballerina sul set di uno dei suoi film. Tra i due avviene una sorta di folgorazione: è un innamoramento di sguardi e piccoli gesti, che danza romanticamente sull’incertezza di un bacio ma non riesce a concretizzarsi.
La scena si trasferisce nel 1929, l’anno della Grande Depressione e dell’introduzione del sonoro. E i destini di George e Peppy s’incrociano di nuovo: Valentin inizia una lenta parabola verso il basso, poiché i cineasti preferiscono affidarsi a volti nuovi con l’introduzione del sonoro; la Miller invece inizia il percorso inverso, che la condurrà a consacrarsi come diva cinematografica a Hollywood. Questo scambio di ruoli viene trasferito in scena con l’incontro dei due sui gradini di una scala fisica e metaforica: la donna sale felice, attesa dal produttore Al Zimmer (un grande e ritrovato John Goodman) per firmare un contratto, mentre l’uomo, affranto e desolato, scende le scale nella direzione opposta, dopo aver rotto con lo stesso Zimmer.
E’ poi geniale ed emblematica la scena che dipinge l’incubo di Valentin, con gli oggetti che fanno rumore al minimo contatto, e la sua voce che invece non produce suoni, quasi a sancire oniricamente l’inadeguatezza di un attore nato nel muto, tagliato per l’accentuata gestualità che caratterizzava il genere, e incapace di cambiare pelle e di calarsi in una forma espressiva che egli stesso considera ridicola.
Ma Valentin, per via di un carattere orgoglioso, non si arrende e impegna il patrimonio personale per realizzare un film muto tutto suo, ma l’epoca del muto è agli sgoccioli, e il film è un fiasco: a seguito del crollo delle borse e del divorzio dalla moglie, l’attore si ritrova sul lastrico. Vende i suoi beni all’asta, licenzia il fedele maggiordomo Clifton (James Cronwell), rimanendo solo con le sue vecchie pellicole e l’amato jack russell, affondando la depressione nell’alcool che lo condurrà a un gesto estremo. Nel frattempo, Peppy Miller, nonostante il travolgente successo, non smette mai di seguirne le tracce, come un angelo custode, e tenterà di aiutare Valentin a risollevarsi.
Jean Dujardin e Bèrènice Bejo contribuiscono alla magnificenza dell’opera: il primo spazia dal successo alla disperazione in una scala espressiva che ne evidenzia l’eccezionale talento: danza e sorride e recita con gioia nella prima parte, riproducendo con eleganza la mimica del muto; s’acciglia e si dispera nella seconda, dove la postura stessa del corpo e le pieghe avvizzite del viso indicano la discesa emotiva inesorabile del suo personaggio. La Bejo è altrettanto sorprendente, grazie alla sua leggerezza, alla freschezza, alla genuinità che infonde ad ogni scena con generosità e naturalezza; la sua aggraziata silhouette e la sua folle effervescenza regalano colore al bianco e nero del film; e le fasi in cui soffre in disparte per l’uomo che ama, in cui si commuove per la bellezza non riconosciuta dell’ultimo film di Valentin, dimostrano la profonda intensità di un’attrice da tenere in considerazione.
Il film di Michel Hazanavicius è un piccolo capolavoro: è un film muto che parla di film muti, e del brusco passaggio al sonoro che ne sancì la fine, dell’ennesimo progresso tecnologico che sconvolse il pubblico e il modo di fare cinema. La delicatezza del linguaggio essenziale utilizzato dal regista produce un film magico, romantico, cavalleresco: non c’è soltanto la tecnica di allora, c’è anche il ritorno alla semplicità espressiva e narrativa di quasi un secolo fa; la forma basilare della comunicazione, l’amore fra i due protagonisti, così gentile e garbato, la cura invisibile di una donna nei confronti di uomo distrutto e questo modo antico e dolce di raccontare una storia producono uno splendore visivo dimenticato e un’opera d’arte da non perdere.
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