La sala non è mai stata così silenziosa, i pop corn non sono mai stati più fuori luogo.
Tutto è muto eppure difficilmente potrebbe essere più eloquente. La dote espressiva degli attori è disarmante, con infantile stupore si segue incantati il movimento delle mani, i balzi degli occhi, l’arricciarsi del naso, le più marginali incurvature delle sopracciglia, le increspature della bocca, si notano muscoli facciali che si scoprono caduti in disuso -fatta eccezione che per qualche audace autoscatto. Le spalle prendono la parola, si sente il peso dello sguardo, l’ampiezza di un sorriso.
Tutto è in silenzio eppure la storia ci è meta-narrata in ogni dettaglio, senza compendi, senza rinunce, in tutta la sua -a tratti ironica- drammaticità. Non si perde il filo del discorso perché non si tratta di un filo, è una coperta di gesti che ti ammanta e ti trascina -complice l’essenzialità della musica- nella sua calda, faconda storia. Una mimica tutta magica, intrisa di logos, imbevuta di una poesia d’altri tempi.
La scelta è impopolare e coraggiosa, senza dubbio rischiosa: al frastuono di oggi, al rumore fine a se stesso, il regista sceglie la silente, impeccabile mira del Gesto. Ai contagiosi virtuosismi della terza dimensione preferisce l’anacronistico ritorno al bianco e nero, un rispolvero fuori dal tempo che permette di immaginare tutti i colori. Agli effetti speciali spacca-timpani, all’indelicato fragore della parole oppone l’umile ricchezza dell’afasia verbale e dunque la parlante dovizia del segno, la sua incontaminata purezza. Non cede alla logica -e al mercato- del “grida più forte” così come non cederà il suo protagonista che, fino alla fine, non si rassegna, non accetta l’avvento del ridicolo “sonoro”, non ne vuole sentir parlare.
La voce non esclude il gesto, la parola detta non toglie la parola al segno.
Sceglie ancora il corpo George Valentin, quando tutto sembra essere perduto sceglie la danza e i segni corporali come veicolo d’espressione, come linguaggio, come modo di comunicare e di comunicarsi.
A ricordarci come il linguaggio umano non si riduca –non può essere ridotto- alla mera lingua parlata.
Limitazione questa che ci preclude alla comunicazione con altre specie, non apice della manifestazione dell’Umano ma difetto da integrare con altri linguaggi, linguaggi da riscoprirsi (magari con l’aiuto del formidabile cane Uggie).
Per “dire” non serve la parola: l’incredulità è spiazzante, il dato di fatto semplicemente lampante.
Forse dietro a tutto questo gioco, senza troppi lustrini e pretese, si cela la speranza ultima, l’umile cenno, il timido invito a tornare a guardare negli occhi con chi “parliamo”. Invito che se accolto potrebbe dischiuderci ad un’infinita scala di grigi, dipanarci dalla sgargiante, contaminata matassa delle “etichette” e renderci liberi dalla schiavitù delle definizioni.
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