Titolo originale | Ulay |
Titolo internazionale | Project Cancer |
Anno | 2013 |
Genere | Documentario, |
Produzione | Slovenia |
Durata | 91 minuti |
Regia di | Damjan Kozole |
Attori | Ulay, Marina Abramovic, Chrissie Iles, Roselee Goldberg, Saskia Bos Alessandro Cassin, Thomas McEvilley, Charlemagne Palestine, Dirk Polak, Ad Verwees, Ann Demeester, Chris Dercon, Anna Tilroe, Cornel Bierens, Dunja Blazevic, Nebojsa Seric Shoba, Maria Rus Bojan, Andries Mesman, Sam Tjioe, Lena Pislak, Christian Houtenbos, Vlado Kreslin, Chuck Close, Sean Kelly (VI), Gerhard Richter, Henk Schiffmacher. |
Distribuzione | I Wonder Pictures |
MYmonetro | 2,65 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento lunedì 27 aprile 2020
Un anno con Ulay, artista concettuale di Amsterdam, tra i pionieri della body art, della performance art e della polaroid art.
CONSIGLIATO NÌ
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Dopo aver scoperto di essere affetto da una forma grave di cancro ed essersi sottoposto ad una prima fase di chemioterapia, l'artista Ulay decide di girare il mondo assieme ad una troupe per visitare i luoghi importanti della sua vita professionale e reincontrare i compagni, amici e sodali di una vita per un ultimo saluto.
In questo documentario che trae lo spunto dall'imminente fine di una vita non c'è mai un momento di commozione, non è quel che Ulay cerca, semmai la sua è una maniera di rievocare il passato senza sottolineare come stia tutto per finire, cioè senza operare quel confronto con il presente dal quale potrebbe scaturire il dramma. In questa maniera quest'ultimo progetto di Ulay finisce per somigliare (da un certo punto di vista) a quelli che ha portato avanti per tutta la vita: un esperimento sul suo corpo, stavolta in disfacimento, che ne metta alla prova la fisicità e che gli consenta di esplorare degli spazi.
Tuttavia è evidente anche una forte differenza con il resto della produzione dell'artista. C'è molto materiale di archivio tra riprese di vecchie performance, fotografie del suo primo periodo e documentazione del sodalizio con Marina Abramovic, anche per questo motivo al procedere del documentario si ha sempre di più l'impressione che il corpo di Ulay sia esplorato più per quel che era che per quel che è. Continuamente bardato in cappotti, cappelli, sciarpe e occhiali da sole, l'artista tedesco appare molto più schivo di quel che la sua storia professionale fa intuire. Della sua presenza fisica si intuiscono poche cose, nonostante sia sempre inquadrato è come evanescente, non rimane impresso e impallidisce al confronto dei video di repertorio o della presenza carismatica di Marina Abramovic.
Però è proprio nel narrare la relazione con l'artista serba che Ulay ritrova di colpo una certa forza. Nella rievocazione che entrambi fanno di una storia d'amore che è stata anche connubio professionale, della sua fine e poi degli strascichi di umana debolezza e piccoli risentimenti, c'è un'umanità profondissima da parte di due figure che nel loro ambito sono titaniche e difficilmente affrontabili. Forse allora è questa l'ultima grande opera di Ulay, ottenere che due giganti della performing art con l'avvicinarsi della morte di uno di loro svelino per la prima volta un'umanità piccina e ordinaria dopo decenni di straordinaria esplorazione dei confini del fisico e della mente.