 Considerato uno dei più grandi cineasti della Storia del Cinema per innovazione visiva, audacia narrativa, profondità tematica e una visione artistica radicalmente personale, Michael Powell è stato la dimostrazione che la grandezza registica non risiede solo nella tecnica, ma anche nella capacità di trasformare il mezzo cinematografico in un linguaggio poetico e filosofico.
                              Considerato uno dei più grandi cineasti della Storia del Cinema per innovazione visiva, audacia narrativa, profondità tematica e una visione artistica radicalmente personale, Michael Powell è stato la dimostrazione che la grandezza registica non risiede solo nella tecnica, ma anche nella capacità di trasformare il mezzo cinematografico in un linguaggio poetico e filosofico.
  Attraverso un'estetica rivoluzionaria, questo autore britannico ha ridefinito il modo in cui il cinema può rappresentare il mondo reale e fantastico, sfruttando l'uso del colore che non è solo decorativo, ma simbolico e soprattutto incastonato all'interno di una composizione di inquadrature pittoriche, che si susseguono in un montaggio a dir poco musicale (anche grazie alla collaborazione con il direttore della fotografia Jack Cardiff, che portò il Technicolor a livelli espressivi mai visti prima di allora). 
  Tutto questo a servizio di temi universali come la morte, il desiderio, la fede, la follia e il tempo, declinati spesso in una riflessione disturbante che anticiperà uno dei caratteri principali del cinema postmoderno e che si faranno anche meditazioni sul libero arbitrio, sul voyeurismo, sull'amore e sulla giustizia cosmica, all'interno di racconti morali piegati alla sua volontà e alla sua padronanza sui generi cinematografici (bellici, fantasy, musical, thriller psicologici, drammi etnografici, pellicole romantiche e metafisiche), nonché marchiati dalla sua firma inconfondibile, che ha elevato un semplice film a un'opera d'Arte totalizzante.
  Storicamente legato al nome del collega Emeric Pressburger, col quale ha stretto un sodalizio che ha generato una delle filmografie più coerenti e raffinate del cinema inglese con un approccio artigianale, concepiva con lui sceneggiature, regie, musiche e fotografie pensate come un tutt'uno, influenzando una metodologia che Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Terry Gilliam, Wes Anderson, Guillermo Del Toro e Christopher Nolan hanno fatto propria.
  Con coraggio e anticonformismo, Powell non ha mai avuto paura di andare controcorrente, in barba alle stroncature della critica, anche quando la sua carriera venne distrutta in patria per L'occhio che uccide, oggi considerato un capolavoro ed eterna fonte d'ispirazione, incoronandolo uno dei più grandi registi che l'Inghilterra abbia mai prodotto.
Lo stile 
  Lo stile registico di Powell è impregnato di arte sinestetica e morale.
  Imprescindibile il suddetto legame con il Technicolor, che non è usato per decorare, ma per significare, di volta in volta, di film in film, qualcosa di diverso: la colorata vita contro un aldilà in bianco e nero o l'ossessione, il desiderio e la morte in un paio di scarpette rosse. Il colore come narrazione simbolica, grazie al quale fu possibile costituire dei quadri in movimento in scene spesso ideate come dei moderni tableau vivant, arricchite dalla profondità di campo e da una simmetria in grado di evocare tensioni, alienazioni o armonia.
  Non meno importante è il montaggio scelto, non solo funzionale ma coreografico, concependo il tempo cinematografico come un tempo musicale, con crescendo, pause e contrappunti. Strade per entrare nella mente dei protagonisti attraverso soggettive, specchi, inquadrature claustrofobiche; tutte scelte seguite con un punto di vista spesso mobile e instabile, all'interno del quale lo spazio è uno dei personaggi fondamentali, non solo uno sfondo, quindi, ma l'influenzatore principale delle scelte dei protagonisti. Un'entità viva, spirituale, spesso ostile o sublime, che si mescola al realismo o al fantastico, al melodramma o alla poesia, in una regia polifonica.
  Ogni pellicola di Michael Powell è quindi un'opera sincretica, in grado di contaminare generi e linguaggi che sfuggono alla linearità. Processi celesti o spirali psicologiche, che diventano architetture morali, dove il conflitto è esterno e interno.
  Come sceneggiatore è stato abilissimo nella costruzione di dialoghi essenziali, spesso brevi, enigmatici, carichi di sottotesto, ma mai retorici. Le battute sono messe in bocca a personaggi che sono in realtà complessi archetipi che incarnano le tensioni universali, l'eros e il thanatos, la libertà e il destino, la visione e la cecità. Non uomini e donne monolitici, ma figure ambigue e tormentate, che si sacrificano, si ossessionano e vivono la morte come un passaggio.
  Filosofico, ma mai astratto, è uno scrittore che, anche nella carta, ha giocato sul tema del doppio, del riflesso e della ripetizione, persino sul suo stesso mestiere, come quando concepì la cinepresa come specchio e arma, all'interno di una struttura circolare o speculare come è circolare e speculare la mente umana, tra ritorni e inversioni.
  Tutto questo ha fatto di Powell il fautore di alcuni dei film più belli, magici e toccanti del Regno Unito.
Il legame con Pressburger
  Come già scritto, fu fondamentale il sodalizio cinematografico che lo legò all'ungherese Emeric Pressburger, grazie al quale produsse molti classici del cinema britannico.
  La loro immaginazione e stravaganza visiva si distinse dalle tendenze realiste dell'epoca fin dal 1939, quando i due si incontrarono alla London Films di Alexander Korda, più in particolare quando uno dei film di Powell attirò l'attenzione dello stesso Korda e di Pressburger, che fuggito dalla Germania nazista, aveva cominciato a lavorare come sceneggiatore in Inghilterra. 
  Anni più tardi, fondarono la loro casa di produzione, The Archers, condividendo la dicitura "SCRITTO, PRODOTTO E DIRETTO DA". Sfortunatamente, la loro collaborazione terminò ufficialmente nel 1957, anche se in seguito si sarebbero riuniti sporadicamente. 
  Nel 1981, Powell e Pressburger furono premiati per il loro contributo al cinema britannico con il BAFTA Academy Fellowship Award, il premio più prestigioso conferito dalla British Academy of Film and Television Arts. Un'onorificenza che celebrò e riabilitò il leggendario duo visionario, sofisticato e molto originale, che si era scontrato coi vertici degli Studios e che non si era mai ripreso da un grave calo di popolarità, seguito alla sua fulgida fase imperiale negli Anni Quaranta e Cinquanta, che li costrinse a dividersi, prendendo strade separate.
  La buffa alchimia personale di questa strana coppia, Powell l'eterno ottimista e intraprendente e Pressburger l'impassibile e sarcastica spalla mitteleuropea, continuò affettuosamente e straordinariamente a influenzarsi da lontano, quando l'uno ricalcava lo stile dell'altro in pellicole completamente diverse.
Studi 
 Michael Powell nasce nel 1905 a Bekesbourne, in Inghilterra, da due coltivatori di luppolo.
  Cresciuto nel Kent, venne educato alla The King's School di Canterbury e poi al Dulwich College. 
  Inizialmente, cominciò a lavorare alla National Provincial Bank nel 1922, realizzando molto presto che non aveva alcuna intenzione di rimanere un banchiere per tutta la vita, visto che subiva sia la passione per il cinema che quella per la scrittura.
Gli inizi come sceneggiatore e i primi film
  Tali passioni lo portarono distinguersi come sceneggiatore, ottenendo un primo lavoro nell'adattamento di un testo teatrale di Charles Bennett, accanto ad Alfred Hitchcock e Benn W. Levy. Testo teatrale dal quale lo stesso Hitchcock diresse nel 1929 il giallo Ricatto, incentrato su una ragazza che, per difendersi da una tentata violenza, uccide un uomo. 
  L'anno successivo, lavorò a Caste di Campbell Gullan e, l'anno ancora seguente, ottenne la sua prima regia cinematografica con Due ore piene, sceneggiato da Joseph Jefferson Farjeon, che scrisse anche lo script per il suo secondo film Il mio amico il re (1932), sul rapimento di un ragazzino destinato a diventare re. 
  Cominciò così la sua prima affermazione come uno dei registi più prolifici e inventivi del cinema britannico, pur operando inizialmente in un contesto di produzioni a basso costo. Passando da Farjeon a Philip MacDonald, Jerome Jackson e Ralph Smart, suoi primi sceneggiatori di fiducia, firmò Il rastrello (1932), Rynox (1932), Il reporter di prima grandezza (1932), Hotel Splendide (1932), il giallo familiare Pagamento alla consegna (1932), l'adattamento del romanzo di Oliver Madox Heuffer Sua Signoria (1932), l'adattamento del romanzo romantico "Mops" di Oliver Sandys dal quale trasse Nata con la camicia (1933), Vessillo rosso (1934), il giallo Gli incendiari (1934), la trasposizione dell'opera teatrale omonima di Ronald Pertwee e John Hastings Turner La notte della festa (1935) e della commedia teatrale di Joan Roy ByfordLa luce fantasma, con protagonisti Binnie Hale e Gordon Harker. Tutte produzioni rapide ed economiche (avevano budget ridottissimi), ma che gli permisero di girare oltre venti film in pochi anni, realizzati per lo più con lo scopo di soddisfare le quote quickie, cioè le quote di produzioni britanniche imposte dalla legge, rappresentando fertili terreni di sperimentazione audiovisiva, all'interno dei quali infondeva una buona dose di originalità.
  Ai tre sceneggiatori sunnominati, nel 1934, si aggiunse anche Brock Williams, coi quali script diresse Succede sempre qualcosa (1934), La ragazza nella folla (1935), la trasposizione del romanzo di I.A.R. Wylie "Nowheres" Un giorno o l'altro (1935) e La corona contro Stevens (1936), tratto dal romanzo di Laurence Maynell "Third Time Unlucky". 
  In seguito, realizzò anche Il pigrone (1935), ll test dell'amore (1935), Il prezzo di una canzone (1935), il dramma di Walter Wllis "S.O.S." reintitolato La sua ultima relazione (1935), Il portafoglio marrone (1936) e L'uomo dietro la maschera (1936), tratto dal romanzo "The Case of the Golden Plate".
Il primo film d'autore 
 Il film che però rappresentò un distacco da questo tipo di pellicole a produzioni più importanti fu Ai confini del mondo (1937), da lui stesso scritto basandosi sulla storia vera di un'evacuazione di trentasei persone dall'Isola di Saint Kilda, al largo della costa occidentale della Scozia, avvenuta il 29 agosto 1930.
  Ai confini del mondo, prodotto dalla Joe Rock Productions e girato a Foula, nelle isole Shetland (poiché non gli fu concesso il permesso di riprendere nell'isola originale), lo tenne occupato per ben quattro mesi, nell'estate del 1936. Mesi spesi a riprendere la dura vita dei pescatori, con il loro stile di vista aspro.
  Già intriso di quella spiritualità paesaggistica che diventerà una sua cifra, Powell cominciò a mostrare le peculiarità del suo cinema: l'isolamento, la lotta tra tradizione e modernità e il potere del luogo come personaggio. Un film sociale, ma anche personale, girato con uno stile semidocumentaristico, ma non meno epico e poetico grazie a una regia ritmica, sostenuta da sovraimpressioni e montaggi che anticiparono il suo marchio del futuro.  La critica apprezzò la pellicola, intravedendo in questa meditazione sulla fine di una civiltà un precoce capolavoro in grado di influenzare il cinema etnografico.
 I lavori con Pressburger 
 Entrato in contatto con Alexander Korda e con la sua casa di produzione London Film Productions, conobbe Emeric Pressburger, autore di una riduzione in sceneggiatura del romanzo omonimo di J. Storer Clouston "La spia in nero". Ambientato nel 1917, La spia in nero fu una spy story dai buoni risultati al botteghino che, dopo Smith (1939), il remake omonimo del 1940 de Il ladro di Bagdad (dove diresse solo le sequenze più spettacolari come il volo sul tappeto e il viaggio del ladro Abu, lasciando il resto a Ludwig Berger, Tim Whelan, William Cameron Menzies e Alexander e Zoltan Korda) e Lettera di un aviatore a sua madre (1941), gli permise di lavorare ancora una volta con Pressburger in Contraband (1940), altra misteriosa spy story sulla scomparsa di una donna che trasportava farmaci di vitale importanza.
  Quando poi anche Pressburger passerà alla regia, i due autori realizzeranno opere commerciali di grande impatto sul pubblico, a cominciare da Gli invasori - 49° parallelo (1941), un film di propaganda con Raymond Massey, Laurence Olivier e Leslie Howard, suggerito dal Ministero dell'Informazione per scuotere gli Stati Uniti dalle loro posizioni di neutralità. 
  Seguirà il bellico Volo senza ritorno (1942), che li farà candidare entrambi all'Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Girato in bianco e nero, ambientato nei Paesi Bassi occupati dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, benché considerato anche questo un film di propaganda sotto l'egida del Governo che voleva, con questi specifici film, tenere alto il morale del popolo inglese, venne lodato per i valori che conteneva e considerato a lungo uno dei miglior film britannici di quel periodo. 
  Powell e Pressburger lavorarono ottimamente nella gestione di un cast che prevedeva Eric Portman, Hugh Williams, Godfrey Tearle, Pamela Brown, Hugh Burden, Emrys Jones, Bernard Miles, Googie Withers e Peter Ustinov, ma soprattutto nello sforzo di massimizzare il naturalismo della pellicola. Il risultato fu che Volo senza ritorno divenne uno dei titoli più popolari al botteghino britannico del 1942 dopo La Signora Miniver, Com'era verde la mia valle e Il Sergente York, merito di una tensione narrativa e di un'umanità che si sposavano perfettamente a un racconto corale, esaltato dalla solidarietà tra i popoli sotto l'oppressione. Una parabola di resistenza e collaborazione dal ritmo serrato e coinvolgente, che ribaltò le convenzioni del genere bellico.
  Nel 1943, ispirandosi al personaggio dei fumetti del Colonnello Blimp, creato dal vignettista satirico David Low, firmarono Duello a Berlino, che segnò definitivamente e ufficialmente la loro collaborazione come produttori, sceneggiatori e registi, liberi dalle influenze di Alexander Korda.
  Ritenuto uno dei migliori film romantici inglesi, Duello a Berlino venne realizzato grazie alla casa di produzione di Powell e Pressburger, la Archer, che però ebbe diversi problemi con la censura di Winston Churchill fin dall'inizio, a causa della sua forte impronta antimilitarista. Rimaneggiato, rimontato e ridotto, non perse però le sue qualità artistiche e tecniche, rimanendo un lavoro ricco di pregi, efficace e accurato.
  Lo stesso anno, firmarono anche Il volontario e, l'anno seguente, il giallo Un racconto di Canterbury, salvo poi dedicarsi al genere sentimentale con So dove vado (1945), avvincente storia romantica di una giovane donna borghese che, decisa a sposare un benestante industriale di mezza età, sarà costretta a fermarsi in un'isola, conoscendo uno squattrinato ufficiale navale. 
  Teoricamente, il duo avrebbe dovuto girare Scala al Paradiso, ma le risorse finanziarie e umane per realizzarlo non erano disponibili a causa della guerra, così, per non farsi mandare al Fronte, si improvvisò una nuova produzione, prendendo spunto da un'idea di Pressburger. Solo nel 1946, la famosa pellicola uscì nella sale, venendo considerata un capolavoro della Storia del Cinema. Le vicende di un valoroso aviatore, salvato dalla morte certa durante un'azione militare sulla Manica, che però intravede uno strano personaggio inviato dall'Aldilà per reclamare la sua anima, fu uno dei loro titoli più visionari, una fusione tra melodramma romantico e metafisica, in grado di accarezzare il labile confine tra vita e morte attraverso un uso rivoluzionario del Technicolor e del bianco e nero.
  Powell e Pressburger costruirono un universo duale con una regia che esaltava al massimo la scenografia (la scala celeste, le statue titaniche, il tribunale angelico), frutto di una visione architettonica modernista e surreale, riempita da dialoghi radio e da immagini oniriche, che voleva un po' parafrasare la diplomazia anglo-americana e una visione laica dell'amore e del destino umano. 
  Andarono poi vicino a un secondo capolavoro l'anno seguente con il coraggiosissimo Narciso nero (1947), tratto dall'omonimo romanzo di Rumer Godden, incentrato su una comunità di suore che prendono possesso di un piccolo centro missionario alle pendici del Tibet, scontrandosi con la diffidenza locale, l'erotismo insito all'interno del luogo e i rimpianti di una femminilità cui furono costrette a rinunciare a causa dei voti presi. 
  Narciso nero fu uno dei film più notevoli dei due registi britannici, dal punto di vista aristico e cinematografico e malgrado i tagli subiti, venendo considerato ancora oggi un cult di assoluta perfezione, lodato per regia, interpretazioni (Deborah Kerr, Kathleen Byron, Flora Robson, Sabu, Anthony Quinn), uso del colore e del suggestivo commento musicale. Così come similmente accadde per Scarpette rosse (1948), ispirata all'omonima fiaba di Hans Christian Andersen e presentata in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. 
  Partendo dal celebre balletto "Scarpette rosse", Powell e Pressburger imbastirono la storia di un'importante compagnia di danza classica che scritturava una promettente ballerina, forse non così resiliente da poter sostenere tensioni e pressioni di un triangolo amoroso che la possiederà come un demone. Una pellicola spettacolare che portò alla formazione di una vera e propria compagnia di danza, composta da ballerini che sapevano anche recitare.
  Meno perfetto fu il loro I ragazzi del retrobottega (1949), basato sul romanzo di Nigel Balchin "The Small Back Room", che fu un omaggio a quegli eroi sconosciuti della Seconda Guerra Mondiale, che lavoravano dietro le quinte delle missioni militari. Un'opera con David Farrar definita "di sapiente artigianato". 
  Nel 1950, uscì sul grande schermo La volpe, tratto dal romanzo di Mary Webb "Gone to Earth", che segnò il loro ritorno nel genere sentimentale, riscuotendo però poche attenzioni, anche se oggi viene considerata una delle loro migliori prove di regia. Lo stesso anno, presentarono anche L'inafferrabile Primula Rossa, un esercizio di stile e tensione, che Powell e Pressburger completarono con una regia elegante e ironica. Anche qui, il Technicolor e le scenografie elaborate la fecero da padrone, facendo brillare una messa in scena teatrale che richiamava il cinema d'avventura classico. 
  Considerata un'opera minore, ma non per questo poco raffinata e sontuosa, venne presentata alla decima Mostra Internazionale d'Arte cinematografica di Venezia, senza però generare particolare interesse. Andò molto meglio con I racconti di Hoffmann (1951), vincitore dell'Orso d'Argento al Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Molto fedele all'opera originale (il noto ballo musicato da Offenbach), fu un'opera ben diretta e curata nei minimi particolari, per trasmettere armonia anche nelle sue parti più inquietanti e irrealistiche. 
  Successivamente, dopo aver rimontato La volpe con il titolo The Wild Heart (1952) e dopo aver firmato L'apprendista stregone (1955), ritornarono all'operetta con Oh... Rosalinda!! (1955), spostando "Die Fledermaus" agli anni del dopoguerra, in una Vienna divisa dall'occupazione alleata.
  Candidati ai BAFTA per la migliore sceneggiatura con La battaglia di Rio della Plata(1957), Powell e Pressburger abbracciarono uno stile sobrio e documentaristico, evitando il sensazionalismo e la glorificazione della guerra e preferendo una narrazione più seria, tecnica e psicologica, così come similmente faranno con la spy story Colpo di mano a Creta (1957), basata sul libro "Ill Met by Moonlight - The Abduction of General Kreipe" di Ivan William Bill Stanley Moss, resoconto di un episodio bellico del 1944 che vide il rapimento di un generale tedesco.
  Ma l'evoluzione del loro percorso artistico e le difficoltà di ricezione critica e commerciale dei loro ultimi lavori, portarono la loro collaborazione verso il declino. Col tempo, infatti, Powell cercò una maggiore autonomia registica, mentre Pressburger si dedicò ad altri progetti, anche televisivi. 
  La coppia unica nel suo genere, quindi, si divise, anche a causa del fatto che erano ormai passati di moda. A metà degli Anni Cinquanta, il realismo in bianco e nero e i drammi da cucina andavano meglio al botteghino e loro, fantasiose glorie del Technicolor, finirono nell'ombra, almeno fino alla loro riscoperta che, però, coinvolse principalmente Powell, lasciando Pressburger ancora in un angolo, anche per sua stessa scelta. 
La fine della sua carriera
  Per queste ragioni, in solitaria, Michael Powell firmò nel 1959 Luna di miele, tratto da una sceneggiatura da lui scritta assieme a Luis Escobar e G. Martinez Sierra, che non fu un semplice film, ma una celebrazione della danza e della cultura spagnola, un balletto cinematografico nel quale il regista inglese sperimentò forma e ritmo, anticipando il musical moderno. Presentato in concorso al dodicesimo Festival di Cannes, passò del tutto inosservato. La regia meno narrativa non attirò attenzioni e la sceneggiatura peccava di lunghi momenti senza dialogo, anche se oggi l'opera è stata audacemente rivalutata.
  Ma non fu questo titolo a mettere fine alla sua carriera di regista. Nel 1960, fu un capolavoro della Settima Arte a condannarlo alla lontananza dalla macchina da presa. 
  Il thriller psicologico L'occhio che uccide, scritto da Leo Marks, incentrato sull'ossessione del voyeurismo, venne infatti accolto malissimo dalla critica dell'epoca, che polemizzò sulle tematiche controverse del soggetto della trama, nel quale un giovane Karlheinz Böhm, fin da bambino, è segnato dai bizzarri esperimenti scientifici paterni, che voleva studiare e registrare gli effetti della paura sul sistema nervoso. Esperimenti che hanno trasformato il protagonista in un serial killer di donne, riprese con una cinepresa proprio un attimo prima del loro omicidio.
  Considerato il più importante titolo di Powell senza la collaborazione di Pressburger, L'occhio che uccide è oggi lodato e preso d'esempio per la sua complessità psicologica, che incorpora l'ossessione per il guardare come espediente narrativo e riflessivo, perché come scriveva Roger Ebert "i film ci trasformano in guardoni. Rimaniamo seduti al buio, osservando la vita degli altri.  È l'accordo che il cinema stipula con noi, anche se la maggior parte dei film è troppo beneducata per menzionarlo". Anche Martin Scorsese fu uno di quei registi che contribuì alla rivalutazione della pellicola, affermando che essa dicesse tutto ciò che si poteva dire sul fare cinema, sul processo di trattare un film, sulla sua oggettività e soggettività e sulla confusione tra le due cose.
  Culturalmente critico con la repressione sessuale, l'ossessione patriarcale, il piacere voyeuristico e la perversa violenza della cultura britannica, Powell si ritrovò quindi ad aver realizzato il suo film più controverso e moderno, anticipando il cinema di Brian De Palma e Dario Argento, autori affascinati dal potere distruttivo dell'immagine. Sovvertendo la sua poetica romantica per esplorare il lato oscuro della visione, sposò una regia claustrofobica, precisa e disturbante, creando una metafora sul cinema, sull'atto di guardare e registrare, tanto che Powell stesso decise di apparire nel film proprio nelle vesti del padre dell'assassino. Una scelta che stratificò e mascherò ancora di più l'analisi della pellicola, dimostrando che i primi recensori non erano riusciti nemmeno a vederlo come valore nominale, radicati com'erano nelle tradizioni del realismo inglese.
  Secondo alcuni, non giovò il fatto che poi venne distribuito dalla Sadean, venendo così considerato parte di una immaginaria trilogia che lo raggruppava a Gli orrori del museo nero (1959) e Il circo degli orrori (1960), che tra l'altro erano connessi a L'occhio che uccide da tematiche simili. Ma non riuscendo a trovare un pubblico, fu (come già scritto) una delle opere di minor successo di Powell e marchiata come "moralmente discutibile, scioccante, nauseante, deprimente e non adatta ai minori" (qualcuno scrisse anche che l'unico modo veramente soddisfacente di smaltirlo sarebbe stato quello di spalarlo e scaricarlo rapidamente nella fogna più vicina), determinando la fine della carriera di Powell nel Regno Unito.
  A nulla valsero film successivi come Le guardie della regina (1961), Herzog Blaubarts Burg (1963, trasposizione cinematografica dell'opera lirica "Il castello di Barbablù" di Béla Bartók), Solo strana gente (1966, da una riduzione in sceneggiatura di Pressburger dell'omonimo romanzo di John O'Grady) e Age of Consent (1969) con Helen Mirren, James Mason (che doveva essere protagonista di una versione di Powell di "La tempesta" di William Shakespeare, progetto mai realizzato), Jack MacGowran e Neva Carr Glyn; il regista britannico si allontanò lentamente dalla cinepresa e dopo il mediometraggio Il ragazzo che diventò giallo (1972), tratto da un altro script dell'amico Pressburger, e il documentario Ritorno ai confini del mondo (1978), si ritirò per sempre dal cinema.
La riabilitazione tra gli Anni Settanta e Ottanta
  Solo con il conferimento del Leone d'Oro alla carriera nel 1982, Michael Powell visse il suo momento di riscatto artistico, venendo accreditato come riconosciuto Maestro del cinema mondiale e come uno degli autori le cui opere furono il cuore del cinema britannico. 
  Un processo che, come già sottolineato, fu alimentato da retrospettive, rivalutazioni teoriche e dalla profonda ammirazione di grandi cineasti contemporanei e che rappresentò una delle più emblematiche riabilitazioni della storia critica moderna.
  Dopo decenni di ostracismo, il cinema di Powell venne decantato per la sua visionarietà e per la forte potenza del suo linguaggio cinematografico. La damnatio memoriae che lo colpì negli Anni Sessanta fu inquadrata come una reazione isterica e moralista a un film che fu precursore del thriller psicologico e venne lentamente smantellata, grazie all'intervento di studiosi capaci di cogliere la radicalità e la modernità del suo sguardo. 
Vita privata
  Michael Powell sposò nel 1927, in Francia, la ballerina americana Gloria Mary Rouger, ma il loro matrimonio durò appena tre settimane.
  Dopo alcuni legami con le attrici Deborah Kerr e Kathleen Byron, negli Anni Quaranta, si unì in matrimonio nel 1943 con Frances May Reidy, che gli rimase accanto fino al 1983 (anno della morte di lei) e che lo rese padre di due figli, Columba e Kevin Powell, entrambi impegnati nel mondo del cinema.
  L'anno seguente, grazie all'amicizia con Martin Scorsese, conobbe e sposò la montatrice Thelma Schoonmaker, di trentacinque anni più giovane di lui, che fu la sua ultima compagna di vita.
  Michael Powell morì nel 1990 per complicazioni a causa di un tumore.