Un film davanti al quale è impossibile rimanere indifferenti; è questa forse la definizione migliore del capolavoro di Kubrick “Arancia meccanica”.
Il film si divide in due parti ben circoscritte, divise dal momento della prigionia del protagonista Alex De Large (un più che perfetto Malcolm McDowell): la prima mostra la violenza che si fa pura estetica, e così gli stupri, i pestaggi e le risse diventano veri e propri momenti artistici, accordandosi maestosamente con le spettacolose musiche, tratte spesso dalla nona sinfonia di Beethoven (chiamato affettuosamente da Alex “Ludovico Van”) e da Rossini – ma è bene ricordare anche “singin’ in the rain. McDowell, assieme ai suoi tre compagni, i suoi “drughi”, si diverte e trova la realizzazione della sua vita solo al calar delle tenebre, quando si trasforma da persona comune, che vive una vita vuota e monotona di giorno, in ciò che lui stesso definisce un “autentico sbarazzino della strada”, detito ad atti di “amata ultraviolenza”, mediante i quali trova la sua autorealizzazione. Tradito dai suoi stessi drughi, Alex finisce in prigione, dalla quale viene scarcerato accettando di sottoporsi alla “cura Ludovico”, grazie alla quale ogni volta che l’impulso violento si scatena in lui, un senso insopportabile di soffocamento lo assale fermandolo. La seconda parte del film, che prende avvio con la sua scarcerazione, è caratterizzata da una triste e cupa critica sociale propria dell’intera produzione kubrickiana: la violenza di Alex è stata domata mediante la cura Ludovico, ma questo porta il ragazzo a trovarsi inerme in un mondo violento, assetato di violenza e di vendetta, o, per dirla con Nietzsche, un mondo “risentito” – emblematica in tal senso è la scena dei vecchi barboni che si scagliano violentemente contro Alex il quale, una delle sere “dei tempi spensierati”, assieme ai suoi drughi aveva coplito ripetutamente uno di loro, e che ora, paralizzato dal senso di soffocamento, non può far altro che accasciarsi su se stesso e subire la violenza dei barboni. Ma Kubrick non si limita a vedere la violenza nel singolo, nel barbone e ner ragazzo, ma anche – e soprattutto – nelle istituzioni e nei loro rappresentanti: politici, carcerieri e poliziotti (da notare la scena in cui Alex, uscito di prigione, incontra due suoi vecchi drughi, divenuti ora poliziotti; uno dei due, Georgie, dice allo sbalordito Alex “no, non c’è né trucco né inganno; credi, credi pure ai tuoi occhi, niente magia qui, Alex. Per dei vecchi drughi come noi il lavoro più addatto è questo: poliziotti!”.
Tuttavia la prima parte del film può essere analizzata anche sotto un altro punto di vista estremamente stimolante e forse non messo in risalto a sufficienza dalla critica: l’arte che maschera la violenza. Infatti il modo di vestire di Alex e dei suoi drighi, il loro vocabolario e più in generale il loro agire nel complesso maschera abilmente ciò che realmente essi fanno: la crudeltà della violenza diviene secondaria rispetto alla potenza artistica, al fascino, che essa esercita agli occhi dello spettatore; in altre parole noi siamo portati da Kubrick a stare dalla parte del protagonista, del violento, e ci pare quasi un’ingiustizia che Alex finisca in prigione, eprchè i suoi crimini sono più simili al giuoco del bambino, o anche ad uno spettacolo dove tutto è finto, che non ad un qualcosa che accade realmente; questo è lo spettacolo che funge da maschera, l’arte che riesce a celare l’orrido deviando il giudizio dello spettatore con immagini abbaglianti. Invece nella seconda perte del film lo spettacolo è tolto, e la violenza non è più teatrale ma reale. L’arte abbandona la violenza, e quindi non più ricercatezza nel linguaggio, nei vestiti e nella musica, ma solo semplice cruda violenza, che costituisce la vera essenza della società, nella prima perte solo efficacemente mascherata dallo spettacolo aritstico.
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