Arancia meccanica

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Assolutamente cinebrivido, O Fratelli! Valutazione 4 stelle su cinque

di Great Steven


Feedback: 70013 | altri commenti e recensioni di Great Steven
lunedì 25 luglio 2016

ARANCIA MECCANICA (UK/USA, 1971) diretto da STANLEY KUBRICK. Interpretato da MALCOLM MCDOWELL, PATRICK MAGEE, MICHAEL BATES, WARREN CLARKE, JOHN CLIVE, ADRIENNE CORRY, CARL DUERING, PAUL FARRELL, MICHAEL GOVER, JAMES MARCUS, PHILIP STONE, MADGE RYAN, SHEILA RAYNOR, MICHAEL TARN, ANTHONY SHARP
Alex è un giovane eccentrico, antisociale e leader di una gang di drughi, ragazzi che si dedicano alacremente allo sport dell’ultraviolenza, che consiste nel derubare i senzatetto, picchiare i banditi delle altre cosche, violentare le donne, rapinare i facoltosi e in generale adoperare ogni mezzo aggressivo e faceto nei confronti di una società che permette a questi delinquenti di ottenere ciò che vogliono semplicemente prendendoselo. Alex nutre anche una passione viscerale per la musica classica (è un patito di Beethoven, specialmente della Nona Sinfonia) e tende a conservare per sé la parte più cospicua dei guadagni tratti dalle quotidiane rapine del suo gruppo. I suoi genitori sono completamente ignari dei suoi comportamenti da malvivente sfegatato, e vivono nell’ignoranza e nell’impotenza di cambiare il loro unico figlio. Ma quando Alex rifiuta di dividere equamente fra i quattro membri della gang (lui, Dim, Georgie e Pete) gli introiti delle avventure notturne, i tre decidono di tradirlo e consegnarlo nelle mani della polizia dopo che Alex ha fortuitamente ucciso la proprietaria di una clinica dimagrante nel tentativo di depredarle gli averi. Il commissario Deltoid, antico nemico di Alex che da tempo voleva incastrarlo, lo fa condannare dal tribunale minorile a quattordici anni di carcere. In prigione, il ragazzo fa amicizia col cappellano, e quando viene  a sapere, dopo un primo biennio di detenzione, del trattamento Ludovico, vuole sperimentarlo di persona, in quanto gli viene promesso che, grazie a questa cura, potrà riavere la libertà nell’arco di due sole settimane. La cura consiste nel fargli visionare dei film ricchi di violenza gratuita e di fargli odiare la musica di Beethoven che lui adora, e al termine del trattamento i medici lo hanno reso inoffensivo e completamente recalcitrante alla violenza e al sesso, che ora lo disgustano provocandogli un forte senso di nausea. Tornato a casa, Alex scopre che i suoi genitori hanno messo a pensione un giovane lavoratore che non vuole schiodare, anche perché i pensionanti gli dimostrano un grande affetto. Nel tentativo di trovare un altro alloggio, Alex viene malmenato da un barbone che aveva aggredito ai tempi in cui faceva le scorribande notturne, e quando viene salvato dall’arrivo inatteso di due poliziotti, scopre che sono nient’altri che Dim e Georgie, messisi al servizio della legge dopo la carriera da drughi. I due lo malmenano e abbandonano spietatamente in mezzo alla campagna, da cui Alex esce per dirigersi, guarda caso, nella casa di uno scrittore al quale aveva precedentemente violentato la moglie, poi morta perché incapace di riprendersi dallo shock. L’autore Alexander, che ora è costretto su una carrozzina e vive con una guardia del corpo, dapprima riconosce in lui la vittima dei giochi di potere del governo, poi arriva a ricordare che fu proprio a lui a causare la scomparsa della consorte, motivo per cui assolda un gruppo di giornalisti perché lo chiudano in una stanza e lo costringano ad ascoltare la Nona dell’ormai odiato "Ludovico van". Alex, non resistendo alla tortura, si defenestra. Si risveglia giorni dopo in ospedale, fasciato dalla testa ai piedi, e riceve la visita del Ministro degli Interni, il quale gli offre un lavoro per la giustizia, assicurandogli una vita comoda e soddisfacente e Alex, pregustando sogni magnifici, accetta. Difficile inserirlo in un genere cinematografico: fantascienza? Fantapolitica? Drammaturgico? Film d’azione? Le categorie si sprecano: il capolavoro di A. Burgess è proposto sul grande schermo da un S. Kubrick più in forma che mai, intenzionato a dire la sua sul tema, già piuttosto acceso e dibattuto negli anni ’70, del mondo distopico: spersonalizzazione dell’individuo, controllo dello Stato in ogni singolo ambito (anche il più insignificante) della vita umana, delegittimazione indiscriminata di qualunque codice di regolamenti, apertura involontaria ma pur sempre incondizionata al crimine giovanile, strutture e sistemi ospedalieri tragicamente schiavizzanti, pulsioni primordiali non represse da tutto quanto scritto sopra, bensì fomentate, e politica assurdamente finalizzata a proteggere lo scranno per soddisfare una sete di potere che ormai si alimenta soltanto di sé stessa. Tutte queste caratteristiche trovano un’espressione mirabolante nelle sequenze coloratissime, travolgenti e disturbanti di un film delirante ed eccessivo che, pur puntando un dito accusatorio contro innumerevoli abomini di un ambiente futuribile, trova il suo significato nella storia di un personaggio principale straordinario per la sua innata eccentricità, la sua lotta per conservare un posto dignitoso (sia da criminale che da cittadino modello) e il suo inconsapevole piegarsi prima allo stato brado da cui trae ogni respiro di selvaggia aggressività e poi ai dettami di una società corrotta e corruttrice che ne fa un mostro in senso diametralmente opposto. Siccome tanto si è detto sul libro di Burgess e sulla trasposizione sul grande schermo di colui che probabilmente è il più grande uomo dietro alla macchina da presa di tutti i tempi, in questa recensione basterà tratteggiare in modo sintetico ed elogiativo i meriti innegabili di un’opera da proporre alle generazioni future e verso la quale è perfettamente infruttuoso covare qualsiasi forma di astio: attori di bravura eccezionale (M. McDowell, malgrado l’età al momento delle riprese, disegna un protagonista favolosamente indimenticabile), contributi tecnici da urlo (persino i titoli di testa e di coda, entrambi monocromatici, colpiscono nel segno!), sceneggiatura non fedelissima all’originale ma capace comunque di iperbolici slanci creativi e originali, musiche che si adattano con una perfezione idilliaca alla violenza (o alla dinamicità) delle scene più riuscite, colori alternativamente forti e tenui a seconda delle emozioni che di volta in volta trasudano dall’intensità della messinscena, significato finale di un pessimismo ancora più accentuato e irrefrenabile di quello comune al regista e critica universale e catalizzatrice ai mali insondabili e non più estirpabili che l’uomo ha coltivato e continua a coltivare, danneggiandosi da solo e procurando sofferenze a chi è vittima del sistema. Quale, non vale la pena di specificarlo. Questo film eccellente e fuori dagli schemi non solo per la sua epoca, è un cimelio che merita di entrare nell’apogeo di quelle poche opere elette della settima arte che hanno saputo concentrare in un prodotto artistico così tante sfumature, anche molto diverse fra loro, dell’auto-distruttività umana quando essa si mette al lavoro. Con la tecnologia, le pulsioni, gli affetti, la violenza necessaria o forzata, il controllo totale dello spazio e della materia.

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