
Il film segna l'esordio alla regia di Umberto Contarello, storico sceneggiatore di Paolo Sorrentino, in collaborazione con la direttrice della fotografia Daria D’Antonio. Dal 15 maggio al cinema.
di Paola Casella
Un bravo direttore della fotografia può fare la differenza in un film d’autore? Certamente, soprattutto se riesce a comprendere il senso profondo del film che sta nelle intenzioni del regista.
Nel caso di L’infinito, diretto e coscritto dallo sceneggiatore di lungo corso Umberto Contarello, la presenza di una grande DOP è determinante: parliamo di Daria D’Antonio, una delle poche (per ora) direttrici della fotografia in Italia, che aveva già alle spalle opere come Il padre d’Italia di Fabio Mollo, Ricordi? (guarda la video recensione) di Valerio Mieli e Tornare di Cristina Comencini, prima di essere “scoperta” da Paolo Sorrentino che l’ha voluta con sé da È stata la mano di Dio, per cui D’Antonio ha vinto il David di Donatello, prima donna nella sua categoria.
È proprio Sorrentino, cosceneggiatore e coproduttore de L’infinito, il punto d’incontro fra D’Antonio e Contarello. E non c’è dubbio che lo sguardo della direttrice della fotografia faccia la differenza: quello sguardo impietoso e allo stesso tempo caritatevole che posa sul protagonista del film, di cui rivela i segni del tempo ma anche l’azzurro infantile degli occhi.
La fotografia di D’Antonio è morbida e gentile, ma non chiamiamola “femminile”, almeno se non sottolineiamo che sa diventare anche tagliente, stagliando le figure umane contro lo sfondo, illuminate da una luce laterale a volte crudele, e trasponendo in alta definizione i personaggi delineati in sceneggiatura da Contarello e Sorrentino.
A D’Antonio basta la luce di un cellulare, o di una lampada appesa strategicamente al soffitto, per restituire al buio sfumature pregne di significati, racconta l’avvilimento di un Oblomov contemporaneo scavando nel suo disfacimento fisico prima ancora che esistenziale, ne attraversa i capelli facendoli sembrare una nuvola trasparente.
La direttrice della fotografia cattura la luce sulle mani di due innamorati o di due ex amanti dando loro diverse gradazioni di senso, acchiappa i rifessi di uno specchio implacabile, orla un bicchiere di cristallo, accarezza il movimento delle acque del Tevere.
Se il mantra di “Umberto” è quello di voler scrivere “scene che non servono a niente”, quello di Daria sembra essere non creare mai inquadrature inutili, illuminazioni a casaccio, o fuori fuoco senza motivo. Le sue transizioni accentuano o dileguano la percezione che abbiamo dei personaggi della storia, che appaiono e scompaiono alla nostra vista a seconda della loro rilevanza del momento. E per questa storia su una ricerca di senso, questo è tutto.
La fotografia di D’Antonio raccoglie, riposiziona, evidenzia, accarezza. Vittorio Storaro, che si definisce (giustamente) “autore della fotografia”, dice che il suo lavoro è “scrivere con la luce”.
E D’Antonio, che è stata allieva di un maestro della “scrittura nel buio” come Luca Bigazzi, calligrafa usando come pennelli le lame di fuoco di un camino, rende il decadimento fisico caravaggesco, e contraddice le pietose bugie che “Umberto” racconta a se stesso e agli altri restituendo loro realtà, perché sa anche essere dura, ma senza mai perdere la tenerezza.