
Il regista racconta il suo Black Tea, dall'idea iniziale a tutte le fasi di realizzazione. Riflettendo sui cambiamenti della società contemporanea. Dal 15 maggio al cinema.
di Marianna Cappi
Da giovedì 15 maggio arriva al cinema Black Tea di Abderrahmane Sissako, il regista del capolavoro candidato agli Oscar Timbuktu. Torna in sala con una storia d'amore che non conosce limiti né frontiere. Lo abbiamo incontrato e ci ha raccontato com'è nato il film, le difficoltà per realizzarlo e qualche aneddoto sulla produzione.
Quello di Aya è un personaggio molto bello: ha il coraggio di dire di no a un matrimonio che non sente e di partire per rifarsi una vita dall’altra parte del mondo. Anche là, però, resta delusa in qualche modo dall’uomo che ama, ma saprà far sentire – letteralmente – la sua voce. Come autore del film, era più importante per lei mettere in luce il razzismo di una fascia della popolazione cinese verso chi ha la pelle nera oppure rappresentare Aya e Cai come allegorie dei loro rispettivi paesi di origine?
Forse il tema del razzismo non è il tema principale del film, ma certo è un tema importante nell'evocazione della vigliaccheria degli uomini; perché in generale gli uomini, a differenza delle donne, possono cadere più facilmente in questa forma di vigliaccheria, nascondendosi e non prendendosi la responsabilità delle cose, prendendo tempo. La scena della cena tra Cai e Aya mostra bene questa debolezza: è un momento intimo, sono da soli, ci sono due bicchieri, bevono del vino, poi suona il campanello, è la famiglia, e lui le chiede di non farsi vedere. Allora lei lo guarda e in quello sguardo c’è tutta la sua delusione, perché ancora una volta l’uomo non si prende la responsabilità di ciò che fa. Per questo poi scrive la lettera che lo spinge a dire la verità a Ying, la madre di Li Ben. Per me questa è una questione universale ma è anche una questione di genere. Perché tutte le donne del film, non solo Aya, si assomigliano, per via del loro destino comune, della loro solitudine e dell'abbandono da parte di un uomo che se n'è andato per un motivo o per un altro.
Per raccontare questo, mi servo, però, anche del territorio: Aya, andandosene, dice no alla sua società. E dire di no a una società è molto difficile, non è certo una cosa facile. Posso immaginare, pur senza saperlo, che anche in l'Italia, cento anni fa o forse meno, quando venivi da un paese a andavi a sposare la ragazza di un altro paese, avevi tradito la tua gente, perché avevi preso la straniera. Tutte le società sono così, ma è anche vero che evolvono, a piccoli passi. Il mondo cambia, è già cambiato. Il centro del mondo oggi è ovunque, anche se l’Europa non lo vede e non lo sa, perché ragiona ancora in termini egocentrici, ma la realtà è completamente diversa.
Ha raccontato che l’idea di questo film era nella sua testa già da tanti anni, quasi venti. Che cosa aveva in mente in particolare? Un’immagine? Un tema?
In un mio film del 2002, En attendant le bonheur, c’è una scena in cui un’africana cena con un cinese. L’avevo inserita per dire che l’Africa è una terra di migrazioni, ci sono delle piccole Afriche che si creano ovunque nel mondo, e c’è un’immigrazione africana anche in Cina. Poi nella mia testa il discorso si è sviluppato, nel tempo, e si è fuso con l’esigenza, che sento sempre, di dare un ruolo e un volto al personaggio di una donna forte, non per forza africana. Queste sono le cose che avevo voglia di raccontare e poi è arrivato il momento, per via di altre cose che sono successe nel mondo, in cui ho deciso di farlo. Partendo da una storia d’amore, che è un soggetto universale, in cui tutti si possono identificare, in realtà racconto più cose contemporaneamente.
Sono passati dieci anni da Timbuktu. Il mondo, dicevamo, è cambiato. Anche la sua idea di cinema è cambiata?
No, per niente, la mia relazione con il cinema, la mia definizione di cinema è rimasta la stessa. Per me il cinema è uno sguardo. La forma dello sguardo può cambiare, ma lo sguardo non cambia. Così come la mia visione della società è la stessa, anche se la società cambia. Inoltre sono passati dieci anni, e oggi ho un figlio di dieci anni, quindi non c'è solo il cinema nella vita. E ho fatto un'opera per il Théâtre du Châtelet di Parigi ("Il furto del Boli", con la musica di Damon Albarn, ndr), che ha richiesto 2 anni e mezzo di preparazione, perché è teatro dal vivo, è diverso dal cinema. Non ho percepito questi dieci anni come un periodo particolarmente lungo.
Dal punto di vista produttivo, è stato complicato realizzare il film?
Be', mettere in piedi un film molto spesso è complicato. In questo caso trovare i mezzi non è stato particolarmente difficile: quello che faccio interessa, quindi, da questo punto di vista, direi che non è stato troppo complicato far partire il progetto. Ma poi ci sono le avventure della produzione, che possono non essere facili quando si gira in tre paesi diversi. È importante avere un team di produzione con una buona conoscenza del territorio e in questo caso si trattava di conoscere ben tre paesi, e non tutti sono in grado di farlo. Questo per dire che la produzione di un film è sempre un’avventura, non è mai facile, ma è andato tutto bene.
Parliamo ora del lavoro con gli attori principali. Ha fatto dei provini? Cosa cercava nei due attori principali?
Il primo casting che ho fatto è stato per cercare il personaggio di Aya. Inizialmente cercavo una donna africana che parlasse cinese, ma poi ho abbandonato questa opzione e ho scelto un'attrice che desideravo far entrare in questa storia. Lavorare con Nina Mélo è stato molto stimolante. Non ha imparato il cinese, ma per sei mesi ha studiato e imparato le sue battute, la pronuncia del testo, con un coach. Come attrice era molto interessata a questo aspetto, ha passato il suo tempo a imparare, a pronunciare, è andata nei ristoranti per ascoltare il cinese, quindi al momento delle riprese era pronta. Anche il casting di Cai, che si è risolto con la scelta di Han Chang, era una ricerca di personaggio. Volevo un uomo che avesse una sorta di carisma, qualcuno capace di cambiare vita. In seguito c'è stato un periodo di preparazione e di discussione con gli attori, perché entrassero effettivamente nella storia. Il resto non è stato un problema: io sono stato aiutato dai traduttori e lo scambio con gli attori è andato bene.
La struttura del film, con quel prologo iniziale e la sua ripresa alla fine, suggerisce che tutto ciò che accade potrebbe alla fine non essere altro che un sogno di Aya. Significa forse che non c’è ancora quell’apertura che il film propone, che è ancora un'utopia?
Non credo che il ruolo dell'arte in generale sia quello di dire: il mondo è così o così. Credo che sia quello di aprire il campo del possibile. Ci sono state donne in Africa che hanno detto no. È successo. Ma comunque non è facile dire di no alla propria società, perché le società non sono necessariamente aperte agli altri, anzi tendono a rifiutarli. L’Italia, per esempio, ha avuto un momento difficile nella sua storia, per cui gli italiani immigravano in altri paesi europei, ma non era mai i benvenuti. In Francia era molto difficile essere italiani. Proprio come i magrebini o gli africani nelle strade, oggi. Il mondo non cambia rapidamente, in realtà, anche se tendiamo a dimenticarlo. Come tendiamo a dimenticare che le società sono sempre alla ricerca di un capro espiatorio.
Il nemico, guarda caso, è sempre il più fragile. Lo scegliamo per giustificare la paura o per creare paura negli altri. E quando si crea paura, si dice all'altra persona: la tua soluzione sono io, perché ti capisco. È questo che fanno le società di estrema destra, le società populiste. E Trump non è il primo. Ci stiamo aggrappando a Trump, ma ci sono piccoli Trump anche in tutti i nostri paesi, non dimentichiamolo.
Dal punto di vista visivo, il film è estremamente elegante ma non esteticamente gradevole. Come siete riusciti a ottenere questo risultato?
L'idea, direi, era quella di fare un film onirico, ma ho sempre pensato che con i film onirici bisogna evitare l'estetismo fine a se stesso. Così ho fatto alcune scelte, ad esempio quella di far svolgere tutto il film di notte. Così è stato più facile mantenermi nell'irreale, per così dire, a parte il viaggio a Capo Verde, che è un sogno fatto di giorno. Per il resto film è tutto notturno. È stata una scelta dettata anche da ragioni produttive, ma soprattutto c'è stato un dialogo con il direttore della fotografia. Credo che ci siamo intesi su cosa volevamo dire, e sul cercare di evitare di scadere nella caricatura dell'Asia o dell'Africa. Era importante per noi privilegiare il soggetto del film, mettere davanti a tutto i personaggi che vengono filmati, che si tratti di Ying o di Aya; favorire sopra tutto la creazione di questo faccia a faccia, privilegiando sempre la bellezza delle anime, e mai in maniera dimostrativa.