Titolo originale | Under den samme himmel |
Anno | 2014 |
Genere | Documentario |
Produzione | Danimarca, Italia |
Durata | 74 minuti |
Regia di | Ditte Haarløv Johnsen |
MYmonetro | 3,00 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 25 settembre 2014
In tre luoghi diversi del mondo, tre giovani africani condividono il sogno di una vita migliore. Per realizzarlo hanno affrontato un viaggio pericoloso e dall'esito incerto.
CONSIGLIATO SÌ
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L'emigrazione dall'Africa all'Europa. Dal punto di vista e soprattutto dalla diretta voce di chi ha già affrontato (o sta per farlo) una spaventosa traversata marina. Che sia di matrice religiosa o consista nell'amore riconoscente per una madre o nel desiderio di un futuro migliore per i propri cari, la speranza è l'unico filo rosso che lega i protagonisti del film, il fattore decisivo di un viaggio così pericoloso.
Harouna, pittore, dal Mali è arrivato a Nouhadibou, in Mauritania. Il suo sogno è raggiungere il Vecchio Continente ma è terrorizzato dalla vista di quel mare che in prima battuta respinge gli uomini. I cittadini africani trattenuti nel Centro di prima accoglienza Umberto I di Siracusa, in un'incivile sospensione identitaria e dei diritti: il fatto che siano sopravvissuti al viaggio non li mette al sicuro, anzi. Per loro inizia l'attesa dei documenti senza i quali nessuna vita può ripartire. E Nwasuma, che ha lasciato il Ghana e passando per l'Inghilterra è arrivata a Copenhagen, vive il proprio passato come una lacerazione. Lei e altri "privilegiati" che sono riusciti a mettere piede in Europa hanno la consapevolezza di essere, quando non merce di scambio per criminali, una risorsa monetaria per i propri cari. L'oggetto di uno sfruttamento ancora più amaro.
Ad aprire il film le raccapriccianti immagini di uno smartphone - mezzo sempre più centrale non solo nel documentario ma nell'informazione in generale: cadaveri seccati al sole, a seguito del naufragio di un barcone. Qui, per fortuna, senza commento parlato né musicale, che a tratti enfatizza situazioni già molto drammatiche.
Meccanismo narrativo centrale è la documentazione delle telefonate a casa: macchina fissa sulla figura di chi parla, audio che registra in viva voce il controcanto di familiari e amici (ma anche, in una scena surreale, del centralino del Consiglio Svedese per l'Immigrazione). Mentre dall'altro capo del telefono arrivano l'incapacità di comprensione e l'inevitabile distacco di chi è rimasto, in campo vacillano i viaggiatori disorientati, stremati. Lo spettatore sperimenta insieme a loro l'alienazione, la graduale perdita di senso.
La regista e fotografa Ditte Haarløv Johnson ha una relazione speciale con l'Africa. Nata a Copenhagen nel 1977, a 5 anni andò per la prima in Mozambico coi genitori (partiti per aiutare il governo locale a ricostruire il paese dopo l'indipendenza ottenuta nel 1975) e ci è tornata a più riprese. Il suo sguardo sui migranti privilegia il taglio da ritratto fotografico. Si sforza di essere oggettivo, ma non è privo di una temperatura emotiva, data la fascinazione per i set naturali, come dimostra la sequenza finale del treno "della speranza". La forza del suo film sta nell'intimità con i soggetti intervistati e quindi nella rilevanza delle testimonianze raccolte. Preziose per uno spettatore ragionante, che non si accontenti di essere mosso a generici pietismi e indignazioni autoassolutorie.