Un thriller ansiogeno che eredita le tematiche del miglior cinema della Corea del Sud. Su Netflix.
di Lorenzo Gineprini, Vincitore del Premio Scrivere di Cinema
Con capolavori come Old Boy di Park Chan-wook e Pietà di Kim Ki-duk la Corea del Sud si è ormai affermata come una delle realtà cinematografiche più interessanti al mondo, una centralità sancita definitivamente dal trionfo di Bong Joon-ho con Parasite (guarda la video recensione) agli Oscar 2020. In questa logica si colloca anche l’acquisto da parte di Netflix di Time to hunt, presentato alla Berlinale 2020 e poi bloccato dalla chiusura dei cinema in seguito all’epidemia da Covid-19. Time to hunt non è un’opera dal valore paragonabile a quelle precedentemente citate.
Si tratta infatti di un thriller ansiogeno confezionato con mestiere, ma con una seconda parte dove la tensione risulta a tratti artificiale, con scenari ed episodi presi in prestito dall’horror più splatter.
L’interesse del film di Yoon Sung-hyun si concentra soprattutto nella prima parte, che racconta l’origine sociale del crimine, cala la violenza in un contesto storico ed economico lacerato dalla disparità sociale. Il film eredita questa capacità dalla migliore tradizione sudcoreana recente: si pensi al potere assoluto del denaro nel cinema di Kim Ki-duk o all’insostenibile ingiustizia derivante dalle gerarchie sociali in quello di Bong Joon-ho.
Da Tarantino in poi il cinema occidentale degli ultimi decenni ha invece rappresentato la violenza come una caratteristica ontologica, iscritta nella natura dei personaggi. Alla fine di Kill Bill 2 Bill espone perfettamente questo concetto in un famoso monologo, summa filosofica del cinema di Tarantino. Bill spiega che il suo supereroe preferito è Superman perché, a differenza di Batman o Spiderman, “Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman”. Lo stesso discorso vale per Beatrix Kiddo, che, in quanto “assassina nata”, non dovrebbe cercare di reprimere la sua indole spietata e confondersi nella grigia realtà quotidiana sposando un uomo qualsiasi. Da questo presupposto teorico risulta un ritratto del crimine come mondo parallelo con leggi morali proprie, un universo senza nessun contatto con la realtà sociale ed economica che invece condiziona noi uomini comuni.
Time to hunt parte da premesse ben diverse: i suoi tre giovani protagonisti sono ragazzi normali, non assassini nati con la passione per uccidere. La violenza e le armi sembrano anzi far loro paura, ma sono costretti all’illegalità da una realtà sociale che non lascia loro alternativa. Pur raccontata con uno stile diverso, si tratta di una situazione simile a quella di Parasite (guarda la video recensione), dove le azioni di ciascun personaggio sono dettate dalla posizione occupata in una gerarchia sociale statica e la violenza non nasce mai dalla natura delle persone, ma dalla costellazione in cui essi si muovono. I tre ragazzi protagonisti di Time to hunt hanno provato a vivere onestamente per alcuni anni, ma non guadagnano abbastanza per pagare l’affitto e non hanno alcuna speranza di poter cambiare la situazione. In una scena significativa Ki Hoon incontra il padre ad una manifestazione e lo allontana infastidito dalla folla, dicendogli che la protesta organizzata non ha alcun senso.