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Come essere Unorthodox e rimanere se stessi

Conquistare un’identità immergendosi totalmente in un altro mondo. Una riflessione sul serie di successo Netflix.
di Elisa Teneggi, Vincitrice del Premio Scrivere di Cinema

Shira Haas (30 anni) 11 maggio 1995, Tel Aviv (Israele) - Toro. Interpreta Esther Shapiro nel film di Maria Schrader Unorthodox.
mercoledì 13 maggio 2020 - Scrivere di Cinema

Una giovane ragazza. Una comunità religiosa asfissiante come famiglia. Radici personali sepolte con cui riconnettersi. Una vita pre-pianificata senza mai chiedere il parere della diretta interessata. E, allora, una fuga, un viaggio per la vita, molto più che un pigro Grand Tour contemporaneo alla scoperta della distante, e vagamente minacciosa, Vecchia Europa. In tempi di pieno lockdown per il Paese, la nuova creazione originale Netflix Unorthodox non avrebbe potuto uscire con un tempismo più (infaustamente) felice.

E non solo per la maggior quantità di tempo mediamente dedicata alla visione di prodotti seriali. Paura, desiderio di libertà, nuovi inizi, responsabilità. Queste le parole-chiave di Unorthodox, miniserie che, in sole quattro puntate e meno di quattro ore, ha saputo incantare e sconvolgere; emozionare e far scendere ben più che un’occasionale lacrimuccia.
 

Pensato come intrattenimento intelligente ma generalista, Unorthodox punta però ancora più in alto, non accontentandosi di presentare una storia avvincente e controversa, narrata seguendo tutti i crismi del miglior storytelling occidentale.
Elisa Teneggi, Vincitrice del Premio Scrivere di Cinema

La scommessa della serie, infatti, è altra. Le creatrici Anna Winger e Alexa Karolinski hanno pianificato ogni dettaglio: non solo Unorthodox deve parlare, letteralmente, la lingua di Esther; ma deve anche portare gli spettatori a masticare l’atmosfera della casa newyorchese della protagonista. E, per farlo, si affidano all’uso dello yiddish, antico idioma delle comunità ebraiche centro- ed est-europee di spiccate influenze tedesche.

Scelta, questa, non scontata, e che sembra anzi offrire spunti di riflessione più vasti: obbligati a comprendere conversazioni da schermo tramite sottotitolo, pare, per un attimo, di poter empatizzare ancor di più con Esther e con lo spaesamento che la attanaglia al confronto con la cultura occidentale laica. Per comprendere un mondo, insomma, bisogna immergersi in esso fino al collo; e vietato indossare scafandri da palombaro. Solo così, questo il messaggio tra le righe di Unorthodox, si potranno apprezzarne lucidamente tanto i punti di luce che le zone di buio. Solo attraverso un confronto attivo, e attento, con il diverso è possibile decifrare appieno da dove si è partiti.

Unorthodox riesce così a seguire con intelligenza nel solco di quel cinema, spesso d’autore, che  vive di sperimentazione, conflitti di comunicazione, e detto-non-detto. Dal dibattuto e felliniano “Asa Nisi Masa” di 8 ½ al linguaggio onirico e riavvolto dei personaggi che popolano la Loggia Nera di David Lynch (Twin Peaks), passando per le conversazioni banali e rosicate degli outsider di Jim Jarmusch (Dead Man, The Limits of Control, Paterson) – che spesso, tra l’altro, avvengono in lingue straniere non tradotte –: il potere di ciò che non comprendiamo, o che fatichiamo a comprendere, spesso diventa, nel cinema, veicolo di significato capace di oltrepassare i dettami della tradizionale comunicazione a mezzo parola. Senza farsi veicolo di scetticismo radicale, Unorthodox gioca con le aspettative dello spettatore, sorprendendole e forzandole dall’interno. E, per la fine del quarto episodio, si arriva a concordare con le creatrici dello show: sarebbe stato strano se Esther si fosse espressa esclusivamente in inglese (o, se doppiato, italiano) impeccabile e universitario.


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