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A lezione di cinema con Iñárritu

Si è tenuto ieri alla Casa del Cinema di Roma l'incontro con il regista di Babel
di Tirza Bonifazi Tognazzi

mercoledì 20 settembre 2006 - News
Dopo la presentazione alla stampa di lunedì, ieri alle 16.30 alla Casa del Cinema c'è stato un incontro con Alejandro González Iñárritu aperto al pubblico, durante il quale il regista di Babel ha tenuto una lezione anche se, secondo lui "il cinema non si impara nelle aule, ma sulla strada". "Il primo lavoro che ho avuto dopo aver fatto il lavamacchine" ha raccontato Iñárritu, "è stato in una radio locale, in Messico. Lì ho avuto la possibilità di esprimere la mia passione per il cinema facendo un programma quotidiano di tre ore in cui intrattenevo il pubblico inventando storie e mettendo tutta la musica che volevo. In seguito sono passato alla televisione, dove producevo degli sketch, ma non sono mai andato in una scuola specializzata".

"Il cinema per me è una necessità vitale, è un'estensione di me stesso, un qualcosa di viscerale. Non sono quello che da ragazzino andava sempre al cinema e conosceva i nomi di tutti gli attori, non sono un intellettuale", ha precisato il regista messicano. Per quanto riguarda la "struttura polifonica" dei suoi film Iñárritu spiega di essere stato influenzato dalla letteratura latinoamericana, piena di autori che utilizzano questa forma narrativa, come Julio Cortázar, Jorge Louis Borges e Ernesto Sabato. "Ma l'esempio l'ho avuto anche in casa: mio padre per raccontarci delle storie non partiva mai dall'inizio, magari prima ci raccontava la fine, poi la parte intermedia fino ad arrivare all'inizio".

Il regista cita anche gli esempi di Rashômon di Akira Kurosawa e Pulp Fiction di Tarantino, per dire in pratica che lui non ha inventato niente di nuovo. "È la vita" dice "che ci presenta in continuazione situazioni polifoniche. Proprio ieri stavo mangiando da solo in un ristorante del centro, parlavo al cellulare con mia madre che sta in Messico, e contemporaneamente ricevevo una mail dagli Stati Uniti, quando nel locale è entrato un uomo con un coltello in mano che cercava chissà chi, e quando sono uscito, in strada c'era questo tipo vestito da egiziano, completamente ricoperto d'oro che mi fa l'occhiolino e mi saluta, ed era messicano!"

Al contrario della sensazione di caos che giunge dai film di Iñárritu, sul set il cineasta è meticoloso. "La telecamera per me è un oggetto che serve a forzare, ingrandire, enfatizzare le emozioni dei personaggi. Molti registi cercano spesso solo il lato estetico di una determinata scena. Io lavoro in maniera diversa, prima monto la scena e poi decido dove mettere la telecamera, lasciando agli attori un ampio spazio di movimento. Sono molto preciso con loro, a volte do addirittura delle indicazioni su dove devono guardare. Inoltre ho messo a punto una tecnica che mi aiuta a focalizzare sui vari aspetti della storia. Pongo delle etichette su ognuna delle scene, sulle quali è scritto un verbo che crea l'azione, per esempio "minacciare"; da lì si decide come deve avvenire la minaccia, se con il tono della voce, con un'occhiata... In questa maniera riesco a rimanere concentrato sul film anche quando sono sommerso da centinaia di problemi con la produzione".

Alejandro González Iñárritu si è fatto conoscere al grande pubblico con Amores perros, girato in Messico. In seguito ha diretto Powder Keg con Clive Owen, il segmento intitolato Mexico del documentario collettivo 11 Settembre 2001, e 21 grammi, con Sean Penn, Naomi Watts e Benicio Del Toro. "Io amo tutti i miei personaggi" ha detto ieri proprio a proposito dei protagonisti dei suoi film, "ma vorrei uccidere gli attori!" ha aggiunto scherzando. "Sono delle persone estremamente fragili, hanno bisogno di continue conferme per andare avanti nel lavoro. Quando li dirigi gli devi fare anche un po' da padre e da psicologo".

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