The Bang Bang Club

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Un film di Steven Silver. Con Malin Akerman, Taylor Kitsch, Ryan Phillippe, Ashley Mulheron, Frank Rautenbach, Neels Van Jaarsveld, Russel Savadier Drammatico, durata 106 min. - Canada, Sudafrica 2010.
   
   
   

Gli scatti che pesano sull'anima. Valutazione 4 stelle su cinque

di ashtray_bliss


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lunedì 9 marzo 2015

Tratto da una storia vera e dal omonimo libro, il Bang Bang Club (cosi soprannominato dal titolo di un'articolista sudafricano) racconta in modo vivido e coerente il mondo difficile dei fotoreporter e il terribile peso morale che essi si portano dietro. Ambientato in Sud-Africa e incentrato sul periodo particolarmente turbolento della fine dell'apartheid e del dominio dei bianchi, la pellicola in questione ci porta nel vivo degli scontri tra le due principali forze politiche nere (Inthaka vs Zulu) che si combattevano a vicenda per ottenere il dominio politico e ovviamente l'appoggio popolare.
In un paese disatrato prima dall'apartheid e poi dagli sconvolgimenti tra le bande di guerrillieri locali le strade del Sudafrica si macchiavano di sangue e in questi cruciali e delicati momenti quattro coraggiosi fotoreporter testimoniavano e divulgavano al mondo la precaria situazione locale. Un nucleo di 3 fotoreporter, Ken, Joao e Kevin al quale si aggiungerà presto il freelancer Greg lavorano per un quotidiano nazionale, The Star, al quale vendono rispettivamente i loro scatti e guadagnando cospicue cifre per il difficile lavoro svolto sul campo. Il resto degli scatti non và buttato ma viene ceduto alle principali testate e agenzie giornalistiche del mondo che riproducono gli scatti, a volte veramente violenti e raccapriccianti, di quel che stava svolgendosi in una nazione divisa e piegata dalla guerra civile. 

Quello però che maggiormente il film mette in evidenza è il disinteresse e la superficialità nonchè la fredezza che questi quattro fotografi manifestano progressivamente. Davanti al loro obiettivo c'è morte, violenza, disperazione e tragedia umana; ma quello che loro rincorrono e percepiscono è soltanto la foto 'perfetta'; quella tecnicamente impeccabile dove l'esposizione e il rumore sono aggiustati, dove i soggetti -in movimento- vengono comunque ben inquadrati senza troppi 'effetti collaterali esterni'. In particolare Greg e Kevin sviluppano questo distaccamento emotivo che li rende spaventosamente insensibili difronte ai soggetti che immortalano in modo maniacale, proprio come dei veri sciacalli mediatici. Ma le loro foto sono l'arma per ottenere riconoscimenti, premi, fama e gloria. E Greg riesce ad essere il primo a ottenere il tanto ambito Pulitzer con una foto che però rischia di metterlo in seri guai legali. La situazione con gli anni non migliora in Sudafrica e all'alba dei primi anni Novanta il gruppo continua le sue missioni nelle strade della loro patria ma anche dei Paesi vicini, come il Sudan piegato dalla guerra e dalla fame. Proprio in Sudan, Kevin Carter, forse l'unico anello debole del bang-bang club, riesce ad immortalare il suo scatto più famoso e controverso. Uno degli scatti migliori ma anche il più moralmente ambiguo e cruento che egli stesso potesse mai immaginare di creare: quello d'una bambina piegata su se stessa, dalla debolezza e dalla fame, nel deserto e braccata da un avvoltoio in procinto ad attaccarla. La foto diventò un emblema, un simbolo della situazione tragicamente allarmante dell'Africa Subsahariana ma divenne anche il simbolo della polemica. Una foto che valse a Kevin il premio Pulitzer (il secondo vinto da un membro del club) ma che provocò una valanga di critiche e insulti, che espose tutti i dubbi e le perplessità sulla moralità e l'etica del lavoro svolto dai fotoreporter, e che proprio per questo segnò il crollo psicologico dell'autore stesso.
Pochi anni più tardi in Sud-Africa tornò la pace con l'avvento di Nelson Mandela ma la pace non arrivò mai per i quattro fotoreporter che si videro travolti da nuove tragedie personali: Ken rimase ucciso proprio sulle strade dove era abituato a lavore, in uno degli ultimi scontri armati tra bande di guerrillieri, mentre pochi mesi più tardi Kevin si tolse la vita non riuscendo più a recuperare la sua integrità mentale e la sua pace interiore dopo il vero e proprio assalto mediatico subito a causa della foto col condor (e gli abusi di stupefacenti che ne conseguirono).
Joao e Greg furono gli unici superstiti di questo nucleo, e anch'essi asueftti dall'adrenalina e dalla natura estrema del loro lavoro continuarono a diventare testimoni di guerre e immortalarne le tragedie tra Serbia, Kossovo, Iraq e Afghanistan per poi ritirarsi definitivamente nella loro terra natia, con le rispettive famiglie.
In definitiva credo che questo lungometraggio, ingiustamente sottovalutato, e firmato Silver (nome abbastanza sconosciuto per il grande schermo) sia stato capace di mettere in piedi e tracciare uno spaccato realistico e altamente drammatico non solo della situazione umanamente tragica vissuta in Sud-Africa, ma anche e sopratutto di quella alienazione umana che ha caratterizzato i protagonisti.
Paragonabile al più recente Nighcrawler, anche qui il regista mette in evidenza e rincalca in più modi, la sete innarestabile di violenza presa come un mero entairtainment dagli stessi fotoreporter, i quali da un punto in poi non sono in grado di distinguere nemmeno cosa sia umanamente e moralmete giusto e cosa non lo è. Come sia possibile trovarsi su un luogo di guerra e continuare a scattare la violenza che ti circonda per poter poi andare a festeggiare di sera nei pub? Cosa cambia, anche se inconsciamente, nella psiche di queste persone che sembrano essere drogate di guerra e violenza senza saper mai quando fermarsi? Domande mai banali, che si scavano una strada nella mente degli spettatori e ci obbligano a riflettere e guardare oltre le foto, oltre quei giudizzi facili da sentenziare.
Resta il fatto che questi giovani e incoscienti ragazzi hanno cambiato la percezione del mondo sull'Africa con i loro scatti, hanno lasciato un marchio certamente indelebile e non indifferente nell'opinione pubblica e anche se con parecchi anni di ritardo hanno dovuto fare i conti con la loro maturazione psicologica che li ha portati a rivalutare il loro bagaglio morale. Nel caso di Kevin, la troppa pressione e i sensi di colpa per uno scatto involontario lo hanno portato al suicidio.

Un bel prodotto, bello nella sua durezza e amarezza, che non sfrutta i suoi protagonisti monodimensionalmente, ma lascia ampio spazio per capire e decifrare la loro psicologia e comprenderne le azioni. Crudele ma realistico l'affrsco del Sud-Africa post-apartheid, fatto di una dilangante e spaventosa violenza che mieteva sangue e terrore nelle strade delle principali città. Molto buone, convincenti e genuine le interpretazioni offerte dai principali protagonisti; Phillippe, Kitsch e Akerman. Valida, lineare e solida la regia e la sceneggiatura.
Una storia che vale sicuramente la pena di scoprire e magari approffondire.
Consigliato. 

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