Proxima

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Un racconto poetico sullo spazio e sulla maternità Valutazione 4 stelle su cinque

di Ashtray_Bliss


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martedì 17 novembre 2020

Un affresco estremamente intimo, coinvolgente, poetico e caloroso quello messo in scena da Alice Winocour, della quale avevo già apprezzato il tocco sensibile e delicato con cui affrontava la sindrome da stress posttraumatico in Maryland (con D. Kruger e M. Schoenaerts). E con grande sensibilità, maestria e una perspicua venatura poetica racconta anche la storia della sua ultima fatica: Proxima. Una storia che affonda le sue radici in una questione tanto complessa quanto controversa e prettamente femminile; la sfida del bilanciare e conciliare, nel modo meno doloroso possibile, maternità e carriera. L'essere una brava professionista e l'essere un bravo genitore. Un bivio che si amplifica notevolmente quando si tratta non di un lavoro qualsiasi bensì dell'astronauta, come nel caso di Sarah (meravigliosamente interpretata da una sempre eccelsa Eva Green), scelta come unica donna della missione europea "Proxima", completando così l'equipaggio composto dall'americano Mike (Matt Dillon) e dal russo Anton. Attraverso Sarah, la regista si cimenta ad esplorare tutto quel ventaglio di emozioni complesse, disordinate, contraddittorie che caratterizzano il rapporto madre-figlia ponendo particolare attenzione alle conseguenze e agli effetti psicologici che la distanza e la separazione (fisica e spazio-temporale) ha su ognuna di loro. Una distanza tanto materiale e tangibile quanto metaforica ed estemporanea che sovrappone il concetto di distaccamento materno a quello dalla madre-Terra; in questo viaggio di esplorazione spaziale tanto avvincente ed emozionante quanto dolente e psicologicamente sconvolgente.
Stella, questo il nome della bambina di otto anni, reagisce dapprima con ammirazione e curiosità nei confronti della madre e del suo lavoro ma poi subentra la rabbia, la negazione, la frustrazione e quella diffusa sensazione di tradimento e abbandono da parte del genitore più importante, che si manifesta progressivamente quando Sarah a causa degli intensivi allenamenti e preparazioni è costretta ad affidare la bambina a Tomas, padre della bambina ed ex marito della donna, nonchè egli stesso uno stimato fisico. Palpabile in tal senso è il disorientamento vissuto dalla bambina e il conseguente carico emotivo che impatta notevolmente svariati aspetti della sua quotidianità: dal parlare una lingua differente (francese con la madre e d'improvviso tedesco col padre) all'adattarsi al nuovo ambiente casalingo e scolastico.
I contatti tra le due invece, mentre Sarah è impegnata negli allenamenti sempre più intensivi dapprima nelle strutture dell'ESOC in Germania, successivamente all'interno di Star City in Russia ed infine al cosmodromo di Baikonour durante la quarantena, vengono coordinati da una psicologa che affianca e accompagna la bambina durante le brevi visite alla madre presso le strutture e i Paesi in questione.
Ma è proprio sulla figura di Sarah che si concentra la regista, catturandone le sfumature psicologiche, i dubbi, i sensi di colpa, le fragilità e debolezze intrinsecamente umane. Un aspetto in netto contrasto con l'immagine professionale di Sarah che si delinea audace, testarda, tenace, una donna che s'impegna e resiste durante tutte le fasi preparatorie, i test, l'arduo addestramento sfidando gli stereotipi di genere, le battute sessiste (Mike ad un certo punto le suggerisce di alleggerire il suo programma), gli ostacoli e le difficoltà.
E la regista ci porta direttamente all'interno dei luoghi dove avviene questa preparazione, negli spazi asettici e ovattati dell'Agenzia Spaziale Europea per mostrarci con taglio documentaristico a cosa si sottopongono effettivamente gli astronauti. Rendendo l'esperienza visiva e sensoriale maggiormente realistica e facendoci immedesimare sempre di più con la protagonista che non può permettersi sbagli, distrazioni, errori. Tutto deve seguire il rigido protocollo imposto dall'ESA ma l'impatto psicofisico di tali addestramenti uniti alla lontananza e al distacco dalla famiglia hanno un effetto notevole sulla protagonista sempre più combattuta tra i suoi due ruoli, senza sostegno morale e afrontando il subdolo sessismo che incontra in un ambiente (ancora) prettamente maschile e maschilista. 
Bellissimo e toccante nonchè lirico è in tal senso il finale, catartico e conciliante, che vede riunite madre e figlia intente a riallacciare e riconsolidare il legame, indissolubile e unico, che le unisce non appena Sarah mantiene e onora la promessa fatta alla bambina.
Ma il finale è anche un tripudio alla libertà, alle scelte di realizzazione personale e professionale, alla ricerca di avventura verso nuovi orizzonti e mete appagando quel innato desiderio di esplorazione, varcando i confini a noi conosciuti di ciò che chiamiamo "casa". Una scelta che tuttavia non pregiudica e non compromette quel potentissimo sentimento che lega una madre ad una figlia ma porta entrambe ad un percorso di crescita interiore nonchè di maggiore conoscenza e comprensione l'una dell'altra. 
Proxima dunque è un film che attinge alla fantascienza -la quale volutamente resta ai margini- per raccontare una storia profondamente umana nella quale è possibile ritrovare pezzi di sè e induce a più di una riflessione; sul rapporto madri-figlie, sulle difficoltà che affrontano le donne nel conciliare e bilanciare maternità e carriera, sul affermarsi come donna in un settore prevalentemente maschile. Ma è sopratutto un lungometraggio poetico sulla fragilità e resilienza umana. Anzi, precisamente, femminile. Su come le donne siano quelle a dover pagare il prezzo più alto e a dover fare i sacrifici maggiori qualsiasi sia l'impresa nella quale si cimentino ma che nonostante tutto resistano e combattono per quel loro sogno, per affermare la loro posizione e combinare nel miglior modo possibile due ruoli che la società ha reso quasi incompatibili, reciprocamente esclusivi. Un film, dunque, che basa la sua riuscita sulla resa delle emozioni e dei sentimenti, i quali non vengono soppressi ma anzi, pervadono il racconto, lo trascinano, lo animano.
Il sentimento diventa dunque il filo conduttore di questo bellissimo e delicato racconto che omaggia la professione dell'astronauta, volutamente visto da un'ottica femminile, restituendole contemporaneamente la sua dimensione più umana, vulnerabile e fragile colma di dubbi e titubanze, persino paure, lontana dai clichè americani di un tempo e nettamente più vicina alla nuova rappresentazione di astronauta come abbiamo visto in Interstellar (pietra miliare del genere fantascienza umana) o Gravity
Regia e sceneggiatura sempre attente alla forma oltre che al contenuto,a tratti assumendo un tono documentaristico, interpretazioni verosimili e sentite da parte di Green, Dillon e dalla piccola Zelie Boulant e una fotografia compatta che predilige gli ambienti freddi e impersonali dell'agenzia spaziale per enfatizzare maggiormente questa dicotomia portante nella pellicola; la rigidità e freddezza richiesta ai professionisti contrapposta al calore e al bisogno emotivo richiesto dall'essere umano. 
Si delinea così una pellicola calda e avvolgente, con un messaggio che infonde speranza e celebra la figura della donna senza retorica e senza condizionamenti ideologici e un finale emozionante e simbolico. di solidarietà e reciproca accettazione. 
Bellissimo e da scoprire.Voto: 4,5/5.

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