leonardo mazzei
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mercoledì 12 settembre 2007
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dylan visto dal caleidoscopio di haynes.
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Non una biografia di Bob Dylan ma solo una pellicola ispirata ai suoi lavori. Sei “storie” che si intersecano per quattro modi di fare cinema, ambiente, fotografia e costumi.
Il film, realizzato e diretto in modo encomiabile, da parte di Haynes, risulta sicuramente di scarsa digeribilità per i non conoscitori di Dylan, uno degli artisti, probabilmente, più criptici, complessi e sfuggenti dei nostri tempi. Le virtù della pellicola diventano, infatti, un arma a doppio taglio proprio perché il film è ispirato alla vivacità artistica di Dylan ed in particolare a personaggi delle sue liriche, a sue poesie ed a sue dichiarazioni. Todd Haynes dimostra, realizzandolo, di essere un vero conoscitore del soggetto, cosa lampante dalla scelta della colonna sonora, con pochissime canzoni davvero conosciute e molto spazio a “scarti” di produzione, che, in Dylan sono spesso superiori, per raffinatezza e ricercatezza, alla produzione originale.
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Non una biografia di Bob Dylan ma solo una pellicola ispirata ai suoi lavori. Sei “storie” che si intersecano per quattro modi di fare cinema, ambiente, fotografia e costumi.
Il film, realizzato e diretto in modo encomiabile, da parte di Haynes, risulta sicuramente di scarsa digeribilità per i non conoscitori di Dylan, uno degli artisti, probabilmente, più criptici, complessi e sfuggenti dei nostri tempi. Le virtù della pellicola diventano, infatti, un arma a doppio taglio proprio perché il film è ispirato alla vivacità artistica di Dylan ed in particolare a personaggi delle sue liriche, a sue poesie ed a sue dichiarazioni. Todd Haynes dimostra, realizzandolo, di essere un vero conoscitore del soggetto, cosa lampante dalla scelta della colonna sonora, con pochissime canzoni davvero conosciute e molto spazio a “scarti” di produzione, che, in Dylan sono spesso superiori, per raffinatezza e ricercatezza, alla produzione originale. Ma del resto “Io è un altro”…
Lo spettatore medio, invece, si troverà di fronte a riferimenti, citazioni ed a volte addirittura scene che risultano estremamente bizzarre e sconclusionate … non lo sono, in fondo. Ma forse il 5% degli spettatori si accorgerà che Jude (Cate Blanchett) e Coco, discutendo in un giardino, stanno parafrasando le liriche di “She’s Your Lover Now”, canzone scartata da Dylan per l’album “Blonde On Blonde” del 1966; o che quel paesino da Ministrel Show nel quale vive Billy (Richard Gere) è una specie di rappresentazione della descrizione visionaria della musica tradizionale che Dylan diede nell’intervista a Playboy del 1966 (dichiarazioni riprese verso la fine del film, da Jude in auto). Ma sarà probabilmente solo l’1% degli spettatori, che si renderà conto che la telecamera che inquadra un cavallo bianco morto, sta solo strizzando l’occhio alle liriche della canzone in sottofondo (ma della quale non sentiamo mai la parte cantata …).
Insomma, il film è realizzato bene, ma probabilmente è per pochi intimi. Ci sono, è chiaro, varie note dolenti, come la rappresentazione del Dylan predicatore, che rasenta il patetico, la scena dei Beatles e Dylan allucinati o l’idea di ingigantire la figura di Mr. Jones (il giornalista che si scaglia contro Jude).
Cate Balchett, ahimé, rientra nelle note negative. Nonostante il premio a Venezia, la sua parte viene fuori come una caricatura del Dylan in versione Londra 1966, forse il periodo di maggiore magnetismo della sua figura, ma impossibile da ricreare in “laboratorio”. Quello che meglio rende la figura di Dylan è probabilmente Heat Ledger (l’attore Robbie). Quello più vicino a Dylan, come personaggio, è probabilmente Ben Whishaw (Artur Rimbaud) che “cita” e fuma. Quello che recita meglio è Richard Gere (Billy). Colonna sonora splendida, da intenditori. Se vi è piaciuto, si consiglia “Don’t Look Back” di D.A. Pennebaker e “No Direction Home” di Martin Scorsese. Se non vi è piaciuto, non ve la prendete. Voi non eravate lì.
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[+] ueh, che competenza
(di watchtower)
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fabio t.
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domenica 27 gennaio 2008
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finalmente un signor film
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Un film simile di questi tempi è quel daybreak cantato da Beth Orton che non ti aspetti, un inno al cinema anzitutto e alle tante vite di Bob Dylan, ricco di significati e spunti interpretativi. Certamente un film difficile e spiazzante, specie per chi non conosce abbastanza della vita del poeta cantastorie ma, a onor del vero, coraggioso, controcorrente e affascinante. Sei personaggi in cerca d'autore, diremmo, sei frammenti significativi del cantante-poeta e dei suoi tempi, interpretati con maestria recitativa, con così tante citazioni e alchimie culturali da considerarsi degnamente un'opera da vedere e rivedere per cogliere e approfondire sempre nuovi messaggi. Benché non tolleri ignoranza nei confronti di chi non sappia alcunché di Bob Dylan, forse l'unica vera pecca del film, sono da segnalare, oltre alla stupenda fotografia e alle indimenticabili musiche (scelte tra le meno note di Dylan), almeno due scene memorabili: le allucinazioni nell'acqua del povero ragazzino di colore e Jude Quinn/Cate Blanchett, ossia lo stesso Dylan, trattenuto da una cordicella mentre tenta di librarsi nell'aria come un palloncino, a dire che la libertà di sognare e che ci eleva, ci lega inesorabilmente a un realtà pesante e immutabile.
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Un film simile di questi tempi è quel daybreak cantato da Beth Orton che non ti aspetti, un inno al cinema anzitutto e alle tante vite di Bob Dylan, ricco di significati e spunti interpretativi. Certamente un film difficile e spiazzante, specie per chi non conosce abbastanza della vita del poeta cantastorie ma, a onor del vero, coraggioso, controcorrente e affascinante. Sei personaggi in cerca d'autore, diremmo, sei frammenti significativi del cantante-poeta e dei suoi tempi, interpretati con maestria recitativa, con così tante citazioni e alchimie culturali da considerarsi degnamente un'opera da vedere e rivedere per cogliere e approfondire sempre nuovi messaggi. Benché non tolleri ignoranza nei confronti di chi non sappia alcunché di Bob Dylan, forse l'unica vera pecca del film, sono da segnalare, oltre alla stupenda fotografia e alle indimenticabili musiche (scelte tra le meno note di Dylan), almeno due scene memorabili: le allucinazioni nell'acqua del povero ragazzino di colore e Jude Quinn/Cate Blanchett, ossia lo stesso Dylan, trattenuto da una cordicella mentre tenta di librarsi nell'aria come un palloncino, a dire che la libertà di sognare e che ci eleva, ci lega inesorabilmente a un realtà pesante e immutabile. Davvero un film riuscito, dunque, tanto strano quanto fascinoso, in quanto ha saputo rendere l'essenza di Dylan senza nominarlo nemmeno una volta. Proprio per questo il film, come il nostro signor Zimmerman, o lo si ama o lo si detesta.
Se posso dare un consiglio a chi decide di vederlo per la prima volta su DVD, acquistate la versione con doppio disco e libro incluso ("Canzoni d'amore e misantropia" di A. Carrera) o, comunque, leggete prima qualcosa sulla vita e i contenuti delle canzoni di Dylan; vi aiuterà ad apprezzare meglio questo bellissimo e bizzarro film.
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antonello villani
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venerdì 21 settembre 2007
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dylan in un ritratto criptico ed affascinante
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Menestrello, poeta, scrittore, rivoluzionario, sovversivo, populista, per Bob Dylan gli appellativi si sono sprecati in oltre quarant’anni di musica che ha fatto sognare milioni di fan eppure lui ha rifiutato qualsiasi etichetta. Il regista Todd Haynes gli ha dedicato un film che racconta la vita, anzi le molte vite, della rockstar che ha cantato il quotidiano di lavoratori sfruttati e le discriminazioni razziali che videro il loro epilolo nel discorso di Martin Luther King. Siamo in pieno ’68 tra manifestazioni di piazza e movimenti pacifisti, Nixon appare nei tg per ricordare ad ogni buon americano che la “sporca guerra” è giunta al termine: amore libero, droghe e poeti della beat generation, il film presentato all’ultimo Festival di Venezia è lo spaccato di un paese in piena crisi d’identità, infiammato dalla ribellione giovanile e martoriato dalle lotte di classe che infuriavano in quegli anni.
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Menestrello, poeta, scrittore, rivoluzionario, sovversivo, populista, per Bob Dylan gli appellativi si sono sprecati in oltre quarant’anni di musica che ha fatto sognare milioni di fan eppure lui ha rifiutato qualsiasi etichetta. Il regista Todd Haynes gli ha dedicato un film che racconta la vita, anzi le molte vite, della rockstar che ha cantato il quotidiano di lavoratori sfruttati e le discriminazioni razziali che videro il loro epilolo nel discorso di Martin Luther King. Siamo in pieno ’68 tra manifestazioni di piazza e movimenti pacifisti, Nixon appare nei tg per ricordare ad ogni buon americano che la “sporca guerra” è giunta al termine: amore libero, droghe e poeti della beat generation, il film presentato all’ultimo Festival di Venezia è lo spaccato di un paese in piena crisi d’identità, infiammato dalla ribellione giovanile e martoriato dalle lotte di classe che infuriavano in quegli anni. Tanto cinema e poco film, la sceneggiatura firmata dallo stesso regista e' criptica e costringe lo spettatore a continui sforzi nel tentativo di decifrare i parecchi volti nell’artista che assume di volta in volta le sembianze del cantante androgino in polemica con il mondo, del cowboy che vive appartato tra le montagne, del padre premuroso e persino del bambino di colore fuggito dal riformatorio. Sei attori interpretano diversi momenti della sua vita, sei personaggi in cerca d’autore, vita e leggenda di un artista che si è battuto per i diritti civili sfuggendo a qualsiasi definizione eppure osannato dai critici che hanno riconosciuto la sua “Like a rolling stone” come la più bella canzone di tutti i tempi. Christian Bale, Cate Blanchette, Richard Gere, Heath Ledger, tanto per citarne alcuni, sono gli attori che prestano il volto ad un cantante divorato dai dubbi esistenziali, mentre il suo entourage racconta l’uomo e l’artista nelle molte interviste che scorrono sullo schermo. Film per nulla facile nel suo percorso narrativo, “Io non sono qui” risulta frammentario e discontinuo ma può vantare una fotografia spettacolare -il bianco e nero calibrato alla perfezione si alterna alle immagini sgranate dell’epoca- che riesce a cogliere le atmosfere di un’epoca e le ansie di una generazione convinta di cambiare il mondo con gli slogan pacifisti. In tanto fracasso la sperimentazione di Haynes soffre nelle interviste che vogliono prendersi gioco del perbenismo di certi intellettuali al punto da sfociare nei dialoghi non sense con il giornalista che rappresenta l’ordine costituito. Alcool e droga party per alcuni liberi pensatori che fanno della musica una vera forma d’arte, il trip onirico di Haynes è spesso irritante, talvolta criptico, e culmina nel messaggio ecumenico di una musica che avvicina popoli e culture tanto diversi. Interpretazioni a parte -sarebbe auspicabile un intervento chiarificatore del regista-, dopo quasi mezzo secolo dal suo debutto il menestrello continua ad incantare con quella voce gracchia ed inconfondibile che lo ha portato in vetta alle classifiche di mezzo mondo. Il risultato è per certi versi discutibile, ma Haynes non sembra preoccuparsi più di tanto perché il suo viaggio emoziona nonostante le mille incomprensioni. Di pubblico e, forse, anche di critica.
Antonello Villani
(Salerno)
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charles
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lunedì 11 febbraio 2008
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la maestria nella frammentazione
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IO NON SONO QUI resta certamente uno dei film più interessanti dell'anno.
Folk e Rock&Roll, poesia e beat generation, classe operaia e party lisergici raccontano ed interpretano l'essenza e le contraddizioni del genio assoluto di Bob Dylan in un'opera corale, a volte colta e quasi sempre molto ben recitata.
Tra le note più convincenti, merita una citazione particolare l'uso sapiente operato da Haynes del concetto di frammentazione. Quello che spesso viene visto solo come un vero e proprio vizio della nuova cultura di MTV e di YouTube, della televisione e del "mordi e fuggi", stavolta diviene anima e corpo di un film intenso ed incisivo. Haynes evita il film autobiografico e sceglie di farne uno d'interpretazione, soggettivo e per niente banale che ruota, nel senso letterale del termine, intorno alla persona\personaggio Bob Dylan raccontato in sei episodi che vanno avanti parallelamente nel corso dell'opera.
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IO NON SONO QUI resta certamente uno dei film più interessanti dell'anno.
Folk e Rock&Roll, poesia e beat generation, classe operaia e party lisergici raccontano ed interpretano l'essenza e le contraddizioni del genio assoluto di Bob Dylan in un'opera corale, a volte colta e quasi sempre molto ben recitata.
Tra le note più convincenti, merita una citazione particolare l'uso sapiente operato da Haynes del concetto di frammentazione. Quello che spesso viene visto solo come un vero e proprio vizio della nuova cultura di MTV e di YouTube, della televisione e del "mordi e fuggi", stavolta diviene anima e corpo di un film intenso ed incisivo. Haynes evita il film autobiografico e sceglie di farne uno d'interpretazione, soggettivo e per niente banale che ruota, nel senso letterale del termine, intorno alla persona\personaggio Bob Dylan raccontato in sei episodi che vanno avanti parallelamente nel corso dell'opera. In questo senso la frammentazione del racconto sembra la sceltà editoriale più azzeccata per descrivere, da punti di vista diversi, la stessa persona, per esprimere la confusione del genio e trasmettere la complessità del cantante. Haynes quindi sceglie la frammentazione per motivi d'ordine narrativo e segue, valorizzandole, tutte le opportunità tecniche ed estetiche che offre questo moderno concetto audiovisivo(la fotografia personalizzante e diversa in ogni episodio, veri e propri videoclip all'interno dell'opera, sensazione di aderenza costante tra musica ed immagini).
In sintesi complimenti al film, che non è solo questo ma è molto altro, e alla convincente lezione che sembra impertire sull'argomento "evoluzioni estetiche del cinema contemporaneo"...
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[+] ciao charles...
(di francesco manca)
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mario scafidi
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sabato 5 gennaio 2008
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esperimento alchemico
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Come in un lungo videoclip, “Io non sono qui” racconta la dimensione pubblica e privata dell’artista della musica Bob Dylan. Lo spettatore non entra mai troppo in contatto con il protagonista, lo osserva a distanza e dietro le quinte. Ottima scelta registica per mantenere l’aura di fascino ed irraggiungibilità di cui può degnamente ammantarsi soltanto uno dei pochi veri miti viventi. Dopo l’esperimento più che riuscito di “Lontano dal Paradiso”, del 2002, Todd Haynes si conferma grande tecnico dell’immagine ed esteta ispirato: tratta e rifinisce i fotogrammi come fossero tessuti di alta sartoria, ricerca spasmodicamente l’impatto visivo inedito ed è capace di ottenerlo. La sceneggiatura, disordinata in maniera programmatica e composta, risulta seguibile come fosse stata concepita in maniera lineare, le canzoni di Dylan accompagnano la narrazione e gli episodi che si susseguono come coronamento ed allo stesso tempo come strumento di duplice integrazione del contenuto: i testi dei brani riempiono di senso le immagini, e le immagini definiscono e chiarificano il significato delle canzoni.
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Come in un lungo videoclip, “Io non sono qui” racconta la dimensione pubblica e privata dell’artista della musica Bob Dylan. Lo spettatore non entra mai troppo in contatto con il protagonista, lo osserva a distanza e dietro le quinte. Ottima scelta registica per mantenere l’aura di fascino ed irraggiungibilità di cui può degnamente ammantarsi soltanto uno dei pochi veri miti viventi. Dopo l’esperimento più che riuscito di “Lontano dal Paradiso”, del 2002, Todd Haynes si conferma grande tecnico dell’immagine ed esteta ispirato: tratta e rifinisce i fotogrammi come fossero tessuti di alta sartoria, ricerca spasmodicamente l’impatto visivo inedito ed è capace di ottenerlo. La sceneggiatura, disordinata in maniera programmatica e composta, risulta seguibile come fosse stata concepita in maniera lineare, le canzoni di Dylan accompagnano la narrazione e gli episodi che si susseguono come coronamento ed allo stesso tempo come strumento di duplice integrazione del contenuto: i testi dei brani riempiono di senso le immagini, e le immagini definiscono e chiarificano il significato delle canzoni. Cate Blanchett, ventiquattro anni dopo Linda Hunt in “Un anno vissuto pericolosamente” si candida a favorita per l’Oscar come miglior attrice non protagonista in un ruolo maschile. “Io non sono qui” è il primo requiem scritto in omaggio di una persona vivente.
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greatsteven
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martedì 12 marzo 2019
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quadri e versioni d'un talento inimitabile.
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IO NON SONO QUI (USA/GERM, 2007) diretto da TODD HAYNES. Interpretato da CHRISTIAN BALE, CATE BLANCHETT, RICHARD GERE, HEATH LEDGER, CHARLOTTE GAINSBOURG, JULIANNE MOORE, MARCUS CARL FRANKLIN, BEN WHISHAW, BRUCE GREENWOOD, BOB DYLAN
Nella decisione del regista di scomporre Bob Dylan (vero nome: Robert Allen Zimmermann, 24 maggio 1941) – uno dei più eccelsi talenti musicali del secondo ‘900 – in sette alter ego interpretati da sei attori, ognuno rappresentante un lato specifico della sua musica e della sua personalità, respingendo i canoni del cinema biografico, l’etica e l’estetica risultano inseparabili. In altalena fra vita e carriera musicale, l’epoca ondeggia tra gli anni 1950 e i primi 1970: 1.
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IO NON SONO QUI (USA/GERM, 2007) diretto da TODD HAYNES. Interpretato da CHRISTIAN BALE, CATE BLANCHETT, RICHARD GERE, HEATH LEDGER, CHARLOTTE GAINSBOURG, JULIANNE MOORE, MARCUS CARL FRANKLIN, BEN WHISHAW, BRUCE GREENWOOD, BOB DYLAN
Nella decisione del regista di scomporre Bob Dylan (vero nome: Robert Allen Zimmermann, 24 maggio 1941) – uno dei più eccelsi talenti musicali del secondo ‘900 – in sette alter ego interpretati da sei attori, ognuno rappresentante un lato specifico della sua musica e della sua personalità, respingendo i canoni del cinema biografico, l’etica e l’estetica risultano inseparabili. In altalena fra vita e carriera musicale, l’epoca ondeggia tra gli anni 1950 e i primi 1970: 1.) Woody, undicenne chitarrista di carnagione scura, nomade, che ha come mito Woodie Guthrie e, per assistere al capezzale del suo omonimo moribondo, scappa da un riformatorio; 2.) Jack Rollins, folk-singer celebre per le sue canzoni di protesta all’inizio degli anni 1960, dirette in particolar modo a screditare la guerra in Vietnam; 3.) John Rollins, illuminato cantante predicatore che si converte al cristianesimo; 4.) Jude Quinn, rockstar androgina, cinica e stizzosa dalle abitudini mondane che non ama troppo le interviste e i giornalisti; 5.) Robbie, popolare attore cinematografico, motociclista ed esperto dongiovanni che intrattiene una relazione con una famosa pittrice francese; 6.) Arthur, poeta sotto processo col vizio di citare Rimbaud; 7.) Billy the Kid, nostalgico cowboy di mezza età che in passato si inimicò Pat Garrett, spietato critico musicale. Sette personaggi in cerca di cantautore che analizzano la leggenda vivente di Duluth mettendone in risalto le caratteristiche molteplici che ne costituiscono le plurime sfaccettature: poeta, profeta, contestatore, cantastorie, messaggero, rivoluzionario e menestrello. Quella che colpisce maggiormente è la figura della stupefacente Blanchett che si guadagnò la Coppa Volpi a Venezia 2007, ma non meno significative appaiono le interpretazioni di Ledger nei panni dell’attore e di Gere come cowboy occhialuto in sella ad un fedele destriero (l’ispirazione al dualismo fra lo sceriffo indefesso e l’imprendibile criminale rimanda al film del 1973 che vide Dylan in persona vestire il ruolo di Alias, l’ambiguo, proteiforme amico di Billy). Resta il sospetto di un esercizio di stile per la sua struttura affastellata nel gioco delle rifrazioni: spiegandomi meglio, come è anche avvenuto nella realtà, alla fin fine è impervio per chi non conosce Dylan ed estraneo per chi invece possiede molte nozioni in merito al punto da dichiararsene esperto. L’anticonformismo, la follia e il genio indiscutibile del protagonista silente che non compare mai se non nelle esibizioni dal vivo preventivamente soffuse a livello cromatico, sono parti integranti di un ritratto che si costruisce da sé in un viaggio nel tempo di cui i sette personaggi intrecciano le loro storie di protesta, disagio, solitudine ed esistenza errabonda per comporre la rievocazione ultima desiderata da Haynes, o, più specificamente, dalla sua sceneggiatura, firmata insieme a Oner Moverman. Un’ottima ambientazione, riecheggiante un ventennio abbondante di storia americana, è utile a Haynes per sperimentare una narrazione frammentata e psichedelica, adoperando sei diversi stili di regia all’interno di ciascun microcosmo nel quale il carattere agisce sia da primo attore sia da spettatore delle proprie angosce oniriche. Un documentario davvero impressionante per caratura e qualità che va ben al di là della sua stretta definizione e in più costituisce non solo un semplice omaggio al Bob Dylan che la maggioranza del suo pubblico conosce e adora (lo stesso cantautore ha dichiarato, almeno sembra, che questo è l’unico ritratto che abbia apprezzato sul serio), ma una miscela magnificamente congegnata di arte visiva, musica e cinema. Quale attributo più gli si addice, fra quelli nominati sopra? Difficile stabilirlo. Difficile per via di una versatilità che gli ha permesso di spaziare nei più svariati ambiti ottenendo pressoché ovunque risultati da applauso, perfino un recente premio Nobel (molto discusso) che però non realizza la premiazione più adeguata per un artista di questo tipo perché, sebbene la canzone statunitense sia stata, grazie a lui, notevolmente rinnovata e accresciuta, un riconoscimento così spetterebbe di più ad un innovatore che abbia tuttavia effettuato il suo lavoro di rinvigorimento nel campo della letteratura, narrativa o saggistica che dir si voglia. Tornando alla pellicola, cui la giuria di Venezia conferì anche un Leone d’Argento, essa ha inoltre il considerevole pregio di scegliere i brani musicali migliori che si adattino alle sequenze e ai loro movimenti precipui mentre mostrano o la voglia di navigare controcorrente o la spinta verso una comunicazione unanime, universale ed eterogenea. In tal senso, abbiamo canzoni di straordinaria bellezza quali Like a Rolling Stone, I Want You e Ballad of a Thin Man che, nel senso veridico del vocabolo, misurano la forza delle immagini contemplando contemporaneamente lo sguardo su una poesia descrittiva di innegabile efficacia.
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piernelweb
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lunedì 17 dicembre 2007
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un mosaico di dylan
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Bisognerebbe arrivare preparati alla visione dell'ultimo lavoro di Todd Haynes, perchè il regista di Los Angeles in "Io non sono qui" (con l'approvazione dello stesso Dylan), infrange completamente lo schema classico del biopic destrutturando il mito in più anime, apparentemente sconnesse ma in realtà elementi di un quadro d'insieme che costituisce una prospettiva sul personaggio a dir poco originale e sorprendente. Bisognerebbe conoscere bene la storia di Dylan, per dare valore ad ognuna delle sei sfacciettature dell'artista o meglio ad ognuno dei sei personaggi simbolo che ne ricostituiscono l'immaginario. Ma esaurito l'iniziale disorientamento, ci si abbandona piacevolmente al fascino frammentario di una pellicola che trova continuamente il modo di raccontare, tra pensieri estrapolati, scarne battute e sound graffianti, l'artista come forse meglio non era possibile.
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Bisognerebbe arrivare preparati alla visione dell'ultimo lavoro di Todd Haynes, perchè il regista di Los Angeles in "Io non sono qui" (con l'approvazione dello stesso Dylan), infrange completamente lo schema classico del biopic destrutturando il mito in più anime, apparentemente sconnesse ma in realtà elementi di un quadro d'insieme che costituisce una prospettiva sul personaggio a dir poco originale e sorprendente. Bisognerebbe conoscere bene la storia di Dylan, per dare valore ad ognuna delle sei sfacciettature dell'artista o meglio ad ognuno dei sei personaggi simbolo che ne ricostituiscono l'immaginario. Ma esaurito l'iniziale disorientamento, ci si abbandona piacevolmente al fascino frammentario di una pellicola che trova continuamente il modo di raccontare, tra pensieri estrapolati, scarne battute e sound graffianti, l'artista come forse meglio non era possibile. Un mosaico di elementi e sensazioni che fluisce apparentemente ingovernato, ma che assume via via nel suo insieme le sembianze del complesso sguardo dell'artista sul mondo. Le numerose citazioni cinefile e soprattutto l'ottima prova del cast (e in particolare di una straordinaria Cate Blanchett) sono il valore aggiunto a questo ragguardevole esperimento cinematografico. Un film, probabilmente, non per tutti, ma chi saprà apprezzarlo non lo dimenticherà facilmente.
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blacky
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giovedì 14 ottobre 2010
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ma per me sarebbero 5
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Non avevo mai ascoltato la musica di Bob Dylan, sapevo solo che era un cantante molto famoso, non sapevo in che modo fosse entrato nella storia e non sapevo neanche a quale tipo di genere musicale appartenesse. Nelle mie vene ha cominciato a scorrere una gelida vergogna dopo aver finito di vedere questo stupendo documentario sulla vita di un colosso di cantante come Bob Dylan. Il bravissimo regista Todd Haynes è riuscito attraverso una perfetta struttura di narrazione a farmi capire tutto ciò che fino ad ora avevo ignorato, imperdonabile. La storia trovo sia geniale soprattutto per l'idea di mostrarci la vita di Dylan mediante sei diversi personaggi. Vediamo che quattro di questi sono interpretati da grandissimi attori del cinema: Christian Bale (a mio avviso troppo poco utilizzato qui) rappresenta la prima parte della vita artistica del soggetto della storia.
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Non avevo mai ascoltato la musica di Bob Dylan, sapevo solo che era un cantante molto famoso, non sapevo in che modo fosse entrato nella storia e non sapevo neanche a quale tipo di genere musicale appartenesse. Nelle mie vene ha cominciato a scorrere una gelida vergogna dopo aver finito di vedere questo stupendo documentario sulla vita di un colosso di cantante come Bob Dylan. Il bravissimo regista Todd Haynes è riuscito attraverso una perfetta struttura di narrazione a farmi capire tutto ciò che fino ad ora avevo ignorato, imperdonabile. La storia trovo sia geniale soprattutto per l'idea di mostrarci la vita di Dylan mediante sei diversi personaggi. Vediamo che quattro di questi sono interpretati da grandissimi attori del cinema: Christian Bale (a mio avviso troppo poco utilizzato qui) rappresenta la prima parte della vita artistica del soggetto della storia. Il periodo Folk, in cui denunciava la guerra del vietnam e esprimeva in modo travolgente grazie alla sua musica lo sdegno e la disillusione di tanti statunitensi. In seguito Bale incarna anche la figura del pastore, simbolo del periodo di conversione cristiana di Dylan. Grandissimi anche Heath Ledger, che rappresenta la crisi del cantastorie con la moglie e Cate Blanchett, sicuramente in questo film l' interpretazione più significativa e più trasportata, in cui riporta il passaggio del Folk al Rock e l'inevitabile persecuzione da parte dei fan verso Dylan. Infine Richard Gere ricopre la parte più oscura della vita di Dylan quando egli stesso si definiva un fuorilegge.
Lo stile della narrazione è poco ortodosso, ma potente, trascinante e commovente. Di fatti le bellissime immagini fluttuano sulle note di una musica celestiale, qual è appunto quella di Bob Dylan. Obiettivamente do 4 stelle perchè vengo incontro a chi non ama pellicole troppo lunghe, ma non essendo mai stato questo un problema per me gliene conferisco personalmente cinque
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shiningeyes
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venerdì 8 marzo 2013
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discreto, ma troppo caleidoscopico
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La vita, i pensieri e passioni di Bob Dylan raccontati attraverso sei personaggi dalle diverse sfaccettature. E' così che decide di realizzare questa sorta di film-documento Todd Haynes, sei storie intrise di poesia e psichedelia (quest'ultima usata in pieno tema anni 60) che per quanto complesse, a volte, fanno girare la testa allo spettatore.
Vedendo il film, un poco ci si confonde sulle idee espresse dai vari Dylan, non capiamo se è un rivoluzionario o un egoista, o che non voglia prendere nessuna posizione particolare.
Molta della confusione è data da un montaggio che si applica su scene di tempi brevi, in cui le storie si accavallano velocemente l'una su l'altra, non dandoti tempo di riflettere su ciò che si è visto.
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La vita, i pensieri e passioni di Bob Dylan raccontati attraverso sei personaggi dalle diverse sfaccettature. E' così che decide di realizzare questa sorta di film-documento Todd Haynes, sei storie intrise di poesia e psichedelia (quest'ultima usata in pieno tema anni 60) che per quanto complesse, a volte, fanno girare la testa allo spettatore.
Vedendo il film, un poco ci si confonde sulle idee espresse dai vari Dylan, non capiamo se è un rivoluzionario o un egoista, o che non voglia prendere nessuna posizione particolare.
Molta della confusione è data da un montaggio che si applica su scene di tempi brevi, in cui le storie si accavallano velocemente l'una su l'altra, non dandoti tempo di riflettere su ciò che si è visto.
Confusione a parte, lo trovo un esperimento di regia un poco troppo complicato, ma indubbiamente è originale, dove si può trovare un punto a favore in una fotografia di stile simbolista ben eseguita.
Tutti gli interpreti dei personaggi fanno bene il loro lavoro: Cate Blanchett è la migliore tra gli attori presenti, dà un tocco più curioso al Bob Dylan più contestato, ed è senz'altro il fattore più attrattivo del film; Un buonissimo Heath Ledger fa un Dylan nella sua crisi matrimoniale, ormai imbevuto dal successo, il quale tenta di recuperare cercando di occuparsi dei suoi figli; Christian Bale e Richard Gere sono gli anelli deboli del cast, non si vedono molto (per fortuna), e comunque sono inconsistenti; mi ha colpito particolarmente M.C. Franklin, che nonostante la giovane età sembra vantare una maturata esperienza davanti alla macchina da presa (magari era pure il suo primo film).
Insomma, interessante la regia mutevole, le storie dei personaggi e buone le musiche. Ma credo che "Io non sono qui" sia uno di quei film che sono opera di un regista che si compiaccia troppo nel girare, facendo perdere un poco d'attenzione, che serve sempre per gustarsi al pieno un film.
Discreto, ma troppo caleidoscopico.
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mar 1973
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domenica 16 settembre 2007
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un viaggio nei mondi di dylan
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Premessa: chi scrive è un appassionato della musica di Dylan, del quale possiede l'intera opera discografica.
Non so quindi se questo abbia influito sull'esaltazione provata al termine della visione del film, che avrei voluto ripetere immediatamente.
Come ormai risaputo il regista Todd Haynes, che già aveva illuminato il mondo del glam-rock con "Velvet Goldmine", si serve di 6 attori che interpretano 6 personaggi diversi per tracciare le sei "anime" di Dylan.
Ad ogni personaggio(nessuno dei quali si chiama Bob Dylan, attenzione)può infatti corrispondere una fase della vita di Dylan. I collegamenti più evidenti sono in quello interpretato da Cate Blanchett (in una interpretazione davvero titanica) nella fase della svolta elettrica, quando Dylan venne contestato nel corso di un tour inglese e da Christian Bale prima nella fase della affermazione come cantante "folk" che, negli anni '80, si converte al cristianesimo sfornando album di solo materiale religioso (pur non divenendo mai Dylan un vero e proprio pastore).
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Premessa: chi scrive è un appassionato della musica di Dylan, del quale possiede l'intera opera discografica.
Non so quindi se questo abbia influito sull'esaltazione provata al termine della visione del film, che avrei voluto ripetere immediatamente.
Come ormai risaputo il regista Todd Haynes, che già aveva illuminato il mondo del glam-rock con "Velvet Goldmine", si serve di 6 attori che interpretano 6 personaggi diversi per tracciare le sei "anime" di Dylan.
Ad ogni personaggio(nessuno dei quali si chiama Bob Dylan, attenzione)può infatti corrispondere una fase della vita di Dylan. I collegamenti più evidenti sono in quello interpretato da Cate Blanchett (in una interpretazione davvero titanica) nella fase della svolta elettrica, quando Dylan venne contestato nel corso di un tour inglese e da Christian Bale prima nella fase della affermazione come cantante "folk" che, negli anni '80, si converte al cristianesimo sfornando album di solo materiale religioso (pur non divenendo mai Dylan un vero e proprio pastore).
L'unico dubbio interpretativo rimane forse sul personaggio interpretato da Richard Gere, che dovrebbe essere il Billy the Kid del film di cui Dylan scrisse l'epica colonna sonora... ...ma che potrebbe essere anche il Dylan attuale, sempre in movimento con il suo "Never ending Tour".
Ogni parte, ogni personaggio dei 6 va a comporre un puzzle dal quale alla fine traspare quella che è stata l'importanza di Dylan nella cultura del secolo appena trascorso.
Un film assolutamente affascinante e straordinario, visivamente meraviglioso, che deluderà certamente chi si avvicina con l'intento di vedere La Biografia di Dylan posta secondo un ordine cronologico, con magari dei dettagli su quella che è stata la sua vita sentimentale (anche se anche qui vi è il riferimento soprattuto nel personaggio intepretato da Charlotte Gainsbourg, che "impersona" al contempo sia Suze, prima fidanzata di Dylan, che Sara, la moglie che gli ha dato due figli).
Ultima annotazione sulla scelta delle canzoni. Non sono state scelte le più famose, non si sentono ad esempio "Blowin' in the wind" o "Mr. Tambourine Man", ma la scelta fatta si incastona splendidamente con le immagini che scorrono sullo schermo, essendo la maggior parte dei brani funzionali al momento rappresentato sullo schermo, ben rappresentandolo, come nel caso in cui parte "Simple twist of fate". Da inoltre modo allo spettatore di scoprire autentici gioielli (come la prima versione di "Idiot wind", poi non inserita nell'album "Blood on the tracks", o "Stuck inside of Mobile with the Memphis Blues again", primo brano che si ascolta nel film).
Film da vedere, da "ascoltare", da sentire.
E da rivedere per custodirlo gelosamente come le emozioni che suscita.
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