Il pianista

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Un film di Roman Polanski. Con Adrien Brody, Thomas Kretschmann, Frank Finlay, Emilia Fox, Maureen Lipman.
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Titolo originale The Pianist. Drammatico, durata 148 min. - Polonia 2002. - 01 Distribution uscita venerdì 25 ottobre 2002. MYMONETRO Il pianista * * * 1/2 - valutazione media: 3,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

FORSE LA MUSICA SALVERÀ IL MONDO Valutazione 4 stelle su cinque

di THEOPHILUS


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lunedì 17 febbraio 2014

THE PIANIST
 
Abbiamo voluto rivedere recentemente The Pianist di Roman Polanski. E’ stato un atto d’amore per uno dei film più importanti degli ultimi anni, che avevamo ingenuamente trascurato o forse colpevolmente frainteso: scettici di fronte al cruciale tema dello sterminio degli ebrei trattato dal cinema – perché riteniamo che i documentari  storici sull’argomento siano un materiale che debba restare intoccabile, non  surrogabile da interpretazioni – avevamo visto il film di Polanski come un tentativo di aggirare la Storia, edulcorando la materia col solo accostargliene un’altra che, data la sua importanza, finiva con l’essere un  elemento ricattatorio. Improvvisa, ma in fondo sperata, è arrivata l’occasione di rivalutare la pellicola: un segno, un invito che non poteva rimanere disatteso.
Il Pianista ha inizio con l’immagine del protagonista che sta interpretando il Notturno op. 27 nr. 1 in do diesis minore di Chopin alla radio polacca. Allo scoppio di una bomba che squassa le pareti della saletta accanto, divisa da un vetro, i tecnici – colti dal panico – si danno alla fuga. Wadislaw Szpilman –  dalla cui autobiografia è stato tratto il film - resta ancora, non per eroismo e sprezzo del pericolo, ma perché – si direbbe – non capisce quello che sta accadendo, è sordo a ogni rumore e sente solo la sua musica. Solo quando non la coglie più e una bomba esplode vicino a lui, si precipita fuori.
Questo sembra essere il leitmotiv di tutto il film. Non che il pianista si disinteressi a quello che capita attorno a lui, ma egli ne è come preservato, ne ha salva la vita e ciò sin da quando si preferisce non farlo entrare nei comitati di resistenza contro i nazisti, perché è troppo noto e non passerebbe inosservato. Ancora, quando sta per salire sul treno che lo deporterà nei campi di concentramento col resto della sua famiglia e viene pescato e tolto a viva forza dal gruppo dal parente che lavora per la polizia ebrea. Quando viene aiutato da Dorota, la conoscente violoncellista che gli trova un appartamento presso cui rifugiarsi: più che l’orrore per il destino di un popolo che allora non si poteva presagire in tutta la sua inumana proporzione, sembra avere potere su di lei lo sdegno e il dolore per la sorte che tocca al pianista. Quando infine viene scoperto nel suo ultimo rifugio dal capitano nazista che vorrà sentirlo suonare e, dopo, gli porterà del cibo e lo aiuterà a salvarsi.
La Musica lo salva e lo redime, anche quando non c’è, anche quando egli la può solo sentire con le orecchie dell’immaginazione, apponendo le mani sulla tastiera, che deve restare muta. Nel film, in effetti, la musica non la si sente risuonare molto di frequente: è nel suo spirito e, oltre a preservarlo dalla morte, gli dà la forza di superare quegli anni fino all’arrivo dei Russi a liberare Varsavia.
Con un’espressione da avvoltoio spiritato, da ratto affamato che si aggira per le case bombardate in cerca di briciole, riesce a sopravvivere solo grazie alla forza che la Musica gli sa conferire. Così, all’inizio del film, mentre il fratello vorrebbe scacciare il commerciante che cerca di portarsi via il pianoforte a coda per due soldi, Wadislaw glielo lascia prendere, conscio che da quel momento in avanti la Musica dovrà sentirla solo dentro di sé. La sua rabbia è interiore, implode insieme alla paura nei momenti di grande pericolo. La Musica gli rende – sola – sopportabile quei lunghi momenti, quell’immagine di una Varsavia distrutta dalle bombe e che si apre al di là del muro del ghetto con un viale di macerie che s’inoltra fra case annerite dalle bombe e ingrigite come cenere. Quei ruderi sono ricettacolo di un vampiro, di uno sciacallo che si aggira fra quelle rovine in cerca della pura sopravvivenza, di qualche cosa che agli altri non basterebbe per tirare avanti. È proprio un vampiro perché riesce a sopravvivere grazie alla linfa vitale che succhia dalla Musica ed è uno sciacallo perché riuscirà a rubare al suo ultimo rifugio quella Musica che lo rende vampiro.
A noi pare questo il senso del film: sembra quasi che il pianista si senta in colpa per essere diverso, per riuscire a sopravvivere grazie a quella sua diversità, mentre, attorno a lui, tutti quanti muoiono. Quella tristezza che è negli occhi del protagonista e dell’attore che interpreta quella parte (Adrien Brody), è la tristezza di chi si sente solo in quella gabbia che lo protegge, ma è anche la tristezza di chi sente la paura di morire ad ogni momento, braccato dalla morte, ma quasi condannato a vivere. Sembra ancora la tristezza di chi prova vergogna di vivere grazie alla Musica, a qualcosa che quindi si rivela più universale e più grande della tragedia di tutte le guerre.
Roman Polanski ha firmato qui forse il suo capolavoro, riuscendo a descrivere in modo lucido - sposando l’asciuttezza del racconto e riuscendo a rifuggire dalla retorica - la devastazione dell’olocausto quasi negandolo, sottraendolo alla sua oggettività, grazie alla soggettività di chi gli è passato attraverso riuscendo a rimanere integro: un inno al pudore del dolore. Quasi una forma d’insensibilità al dolore, un’anestesia che gli fa sopportare qualsiasi trauma. La Musica e l’Arte che preservano e che salvano: qualcosa di catartico, di mistico.
Riprendendo il filo del discorso iniziale, The Pianist non è quindi tanto un film sull’olocausto, ma è una professione di fede, il racconto di una vittoria, un’ascesa. Se i filmati storici sono tra i documenti più terribili a testimonianza della tragedia dell’Uomo, se  in un lungometraggio come Schindler’s list, la pietas che lo pervade e la maestria di Spielberg non possono comunque non farci riflettere sulla profanazione sostanzialmente inutile che è stata operata, privo com’esso è di elementi di contrasto che si staglino sul fondo, The Pianist racchiude invece due film che si fondono perfettamente e si alimentano a creare un’unicum che vive a pieno diritto.
Gli occhi del pianista vedono tutto quello che vede lo spettatore: il vecchio invalido che viene buttato giù con la  sedia a rotelle dalla terrazza della sua casa o la scena di chi guarda in faccia il pazzo aguzzino che sta ricaricando la pistola e ha un attimo in più per pensare alla vita che lo abbandona o il bambino che egli tenta di far passare attraverso una buca scavata sotto il muro del ghetto, mentre dall’altra parte lo stanno massacrando. Lui si salverà con la Musica, noi guardando il film.
 
Enzo Vignoli,
12 aprile 2004
 

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