Titolo originale | Anverj Pakhust, Haverzh Veradardz |
Anno | 2014 |
Genere | Documentario |
Produzione | Armenia, Paesi Bassi, Svizzera |
Durata | 90 minuti |
Regia di | Harutyun Khachatryan |
MYmonetro | 2,98 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento sabato 6 dicembre 2014
CONSIGLIATO SÌ
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Armenia, 2012. In una chiesa ortodossa si celebra un rito religioso, su un canto ipnotico. Lo stesso che accompagnerà alcuni lunghi inserti che riguardano la vita e le riflessioni a voce alta dell'incontenibile narratore Hayk Khachatryan, lungo un arco di oltre vent'anni. Esule armeno a Mosca, regista teatrale, già intrepido abitatore della tundra, circondato da animali e cani fedeli, lo vediamo ripreso da una distanza in un interno, mentre dialoga con due amici - i musicisti ai tempi in auge Rubo e Plush - sulla complessità del tradimento della patria, quando si deve scegliere tra questa e la libertà. Ma poi la regia lo segue in diversi momenti negli anni successivi, in una riflessione continua sul senso del ritorno.
Nato nel 1951 in Georgia ma di nazionalità armena, cofondatore e direttore del Golden Apricot Festival di Yerevan, Harutyun Khachatryan ha portato i suoi film in svariati festival internazionali. In coincidenza con tre circostanze epocali come la dissoluzione dell'Unione Sovietica, il terremoto che colpì l'Armenia nell'88 e il conflitto tra Armenia e Azerbajan per il territorio del Nagorno Karabakh ('88-'94) con il conseguente isolamento del Paese, dalla fine degli anni '80 ha iniziato un lavoro di ricerca sugli esuli armeni, finalizzato a un ciclo di cinque documentari, di cui Endless Escape, Eternal Return costituisce la prima parte. Il filo conduttore è la lontananza dalla patria, raccontata dal punto di vista di diversi esponenti del mondo artistico. Il regista Hayk Khachatryan, con il suo eloquio suadente, le sue storie affascinanti e la statura nobile da antagonista dei film di James Bond, è oggetto del film e insieme unico interprete di un'accorata pièce dell'esilio, in un raro e spiazzante mélange di documentario e ricostruzione autobiografica che trova conforto nell'arte. Un mosaico di immagini che corrono avanti e indietro nel tempo, come a isolare e definire la dimensione dell'apolide, racchiuse in testa e in coda dal sigillo di una religiosità potente, àncora di salvezza per l'esule, insieme alla letteratura. Le riprese d'archivio con Hayk itinerante, che si prepara un fuoco sulla neve con pochi mezzi o che racconta del viaggio in Kamchatka, sono di una potenza straordinaria, per l'irraggiungibilità di quel mondo, in quel particolare momento storico. La discontinuità tra i momenti in cui le riprese sono state realizzate non inficia il senso del film, ovvero l'eterna, quanto mai attuale questione dell'identità nazionale. Sintetizzata da una delle tante citazioni di Hayk: «La vita di un uomo è come l'acqua, va e viene».