Le aspettative erano bassissime. Abituati a decine di seguiti e remake pensati esclusivamente per sfruttare la nostalgia dei fan e trasformare vecchi classici in nuovi franchise adatti ad un pubblico più vasto e affezionato possibile, non ci si può immaginare altro che mediocrità. Questa volta però, la scelta di ingaggiare Denis Villeneuve ci ha dato un segnale si speranza riguardo all’opera che la produzione cercava di ottenere. Il risultato? … sopra ogni aspettativa.
Fin dalle prime immagini ci accorgiamo che l’intenzione era veramente ambiziosa, e l’impegno ai massimi livelli. Villeneuve si è dimostrato un’ottima scelta confermando tutte le capacità già dimostrate nel bellissimo “Arrival”, confezionando un prodotto di qualità: moderno, visivamente superbo, rispettoso dello stile e dell’atmosfera del "Blade Runner" dell'82. Figlio di un cinema sofisticato, fatto di dettagli, di analisi, lontano dalla frenesia del cinema odierno, Villeneuve utilizza alla perfezione i potenti mezzi a sua disposizione per prendere spunto dall’universo di Blade Runner ampliarlo, portando i protagonisti oltre i confini dei pochi set dell’originale, inventando nuovi ambienti curati in ogni dettaglio, visivamente straordinari e realistici. Grazie ad un ritmo lento ma ben calcolato, immagine dopo immagine, sequenza dopo sequenza, lo spettatore si trasforma in investigatore accanto al protagonista. Chi è in sala ha infatti tutto il tempo di osservare con attenzione ogni dettaglio delle scenografie, dei costumi, delle espressioni dei protagonisti, come se fosse un compare di K il cacciatore di replicanti interpretato da Ryang Gosling.
Purtroppo, nonostante i buoni risultati, questo Blade Runner 2049 non è esente da difetti. L’eccessiva lentezza ostentata in alcune scene che non ne avevano bisogno è una delle critiche più diffuse. Nel film originale, l’alternanza di ritmo era uno strumento grazie al quale il regista poteva comandare a piacimento l’interesse dello spettatore, convogliare le attenzioni e stimolare emozioni. In questo film invece si adotta la solita soluzione per tutta la durata del film, conferendo la medesima importanza ad ogni singolo fotogramma con conseguente appiattimento delle dinamiche narrative.
Anche tra i protagonisti c’è qualche personaggio criticabile. Se nel film di Ridley Scott non si percepisce la presenza di buoni e cattivi ma solo di esseri appartenenti a diverse realtà che cercano di difendere e preservare la loro vita, in questo nuovo capitolo ci troviamo di fronte alle solite figure standard dell’action movie americano. Un grave calo di stile è ad esempio il personaggio di Wallace (malamente interpretato da Jared Leto), il classico scienziato pazzo e incompetente, invidioso del suo geniale predecessore. Altrettanto imbarazzante è la sua segretaria tuttofare; una replicante assassina, rabbiosa e sadica che elimina chiunque intralci i suoi piani. Non a caso Hanz Zimmer scrive per lei un tema musicale che ricorda quello di Terminator. Luv (così si chiama la terminatrice) è anche protagonista dei peggiori cliché da film di sere B, ovvero l’abitudine di ferire e lasciare in vita il suo nemico, permettendogli di tornare più agguerrito che mai (e questo per ben due volte!). Davvero ottimo invece il personaggio di Sapper, interpretato da Dave Bautista,
Altra nota dolente è la mancanza di originalità e di coraggio. Per paura di rivelare troppo e risolvere gli interrogativi con i quali il film dell’82 ci aveva lasciati, questo capitolo non racconta nulla di nuovo, non reinventa e non stupisce, ma si limita a farci rivedere con occhi più maturi, quello che già sappiamo, o ad inserire situazioni già viste in decine di sceneggiature di fantascienza. Dove nel primo film si viveva il dramma dei replicanti, così diversi, tanto meravigliosi quanto limitati, qui ci troviamo davanti a creature che non invidiano niente degli umani se non la loro libertà, e la sceneggiatura scivola ancora una volta sul solito scontro fra razze (si consiglia la visione de “Il secondo rinascimento” contenuto in “Animatrix”, o “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaròn, se proprio non si vuole riprendere in mano la saga de “Il pianeta delle scimmie”).
Veniamo adesso alle scenografie, alla fotografia, alle luci, a tutto ciò che ha reso del buon vecchio “Blade Runner” un capolavoro visivo. Per il suo nuovo film, Villeneuve sceglie di aumentare la sensazione di claustrofobia attraverso una fitta nebbia e una pioggia inarrestabile riuscendo sì nell’intento, ma offuscando la bellezza delle inquadrature aeree cittadine, che in questo modo, nonostante le tecnologie odierne, non restituiscono l’impatto delle riprese di Ridley Scott. Le scene metropolitane inoltre faticano a replicare la sensazione originale di sporcizia e decadenza maleodorante dell’originale, avvicinandosi ad un’iconografia del futuro più classica, pulita e ordinata, ben lontana da quell’immaginario cyberpunk che “Blade Runner” aveva contribuito a creare.
Nonostante i numerosi difetti che non lo rendono il capolavoro acclamato da molti, il film resta comunque piacevole, maestoso, trascinante, e meritevole di visione.
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