È morto, a novantasei anni, poco prima di Pasqua, nella notte tra mercoledì 27 e giovedì 28. Chaplin morì a Natale, con tempismo ancora più deciso. I grandi sanno persino qual è il momento esatto per andarsene. Tre giorni prima, avrebbe dovuto partecipare alla cerimonia dell’Oscar, ma aveva rifiutato di presentarsi in carrozzella davanti a tutto l’establishment hollywoodiano, magari ancora un pòastioso nei confronti dell’austriaco sbarcato a Los Angeles nel 1934, pungente, cattivo, irredimibile, dalle prime sceneggiature per Lubitsch e Leisen agli ultimi dei ventisei film diretti, almeno due dei quali feroci proprio nei confronti del mondo del cinema e dei suoi falsi miti: Viale del tramonto (1950), vero prontuario della decandenza e del cinismo di Hollywood, e Fedora (1978), che avvolge ogni illusione in un sudario di menzogne cadenti: "A Hollywood - ha detto una volta - non seppelliamo i nostri morti. Continuano a puzzare. Puzzeranno la settimana prossima a Cincinnati, a Londra e a Parigi, ed entro due anni puzzeranno alla televisione". Fa un po’ effetto raccontare in termini cupi l’autore che ha fatto della commedia un’arte; ma forse Billy Wilder era un grande tragico che ribaltava in chiave leggera la struttura narrativa dei suoi drammi. Infatti (a parte i veri drammi che ha realizzato, dalla storia dell’alcolizzato di Giorni perduti a quella della fuga dal campo di concentramento nazista di Stalag 17, dal noir "fondante" La fiamma del peccato alla preveggente condanna dei mass media L’asso nella manica), molte delle sue commedie più travolgenti partono da uno spunto drammatico o addirittura violento. Il massacro del giorno di San Valentino in A qualcuno piace caldo ("Occorre qualcosa di veramente violento perché dei giovanotti si travestano da donna" ha detto. "E per rendere verosimile il fatto che quando incontrano Marilyn non si spoglino dicendo: "Guarda! Sono un uomo!""), l’esecuzione di un probabile innocente in Prima pagina, una brutta truffa in Non per soldi... ma per denaro, un doppio decesso in Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, un tentato suicidio in Buddy Buddy. In Wilder, il paradosso, l’eccesso del dramma incontrano quelli della commedia, non per stemperarsi in essa, ma se mai per farsi ancora più incalzanti e per scoprire attraverso la lente di un’autoironia implacabile la loro passeggera futilità. In Wilder, comunque, la vita continua, rimescolando le carte degli incontri e degli equivoci, lasciando sempre aperto uno spiraglio alla ripetizione del caos. In questo senso, i suoi finali, hollywoodianamente lieti, non sono mai hollywoodianamente concilianti, primo fra tutti lo "scandaloso" "Nessuno è perfetto" che chiude in gloria (un matrimonio?) il fidanzamento tra Jack Lemmon e Joe E. Brown in A qualcuno piace caldo, solo il più esplicito e ilare tra i tanti ribaltamenti della morale comune dai quali Wilder partiva.
Fin dal primo film diretto in America, Frutto proibito del 1942, dove un maggiore si sente colpevolmente ma irresistibilmente attratto da una dodicenne, senza accorgersi che in realtà si tratta della squattrinata (e matura) Ginger Rogers travestita, Wilder ha infatti giocato con gli stereotipi di classe e morali della commedia, per far emergere tutto ciò che di inconfessabile portiamo in noi, nascondiamo, ma certamente non riusciamo a espellere. Gli sono sempre piaciute le prostitute, le ragazze innamorate dei tipi sbagliati, i rapporti sentimentali vistosamente squilibrati, per età (come nei due film con Audrey Hepburn, Sabrina e Arianna), per sesso (come in A qualcuno piace caldo, ma anche in Prima pagina, tra le pieghe di un racconto nella cui versione precedente, del 1940 di Hawks, i due protagonisti sono un uomo e una donna), per carattere e atteggiamento verso la vita (i protagonisti di Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, lui nevrotico e moralista lei placida e transigente), per censo, sempre. Il sesso, le classi e le porcherie che sottendono il perbenismo sono sempre stati il cuore del suo cinema, di volta in volta con acidità o con tenerezza. Uno dei suoi capolavori, L’appartamento (per il quale nel 1960 vinse il secondo Oscar per la regia, dopo quello per Giorni perduti), ci racconta sulla american way of life e sulla meritocrazia molto di più di tanti soggetti "seri" (un impiegatino scapolo fa carriera prestando il suo appartamento ai capi che lo usano come gartonnière); Quando la moglie è in vacanza, nella semplice esposizione della meravigliosa Marilyn, corteggia e giustifica l’adulterio (che in Baciami, stupido finisce addirittura per essere considerato terapeutico per la solidità della coppia); e la doppia storia d’amore della moderna Cenerentola viene chiosata con illusoria complicità o con realistica preoccupazione dal coro della servitù alla quale Sabrina e suo padre autista appartengono. Se c’è stato a Hollywood un magnifico amorale, un autore spudorato, un critico puntiglioso e acuminato dei nostri quotidiani vizi e inganni e compromessi, è stato Billy Wilder.
E tutto questo sapeva raccontarcelo con l’esemplare semplicità dei generi, con storie (che ha sempre anche scritto, affiancato, negli anni, dagli inseparabili Charles Brackett - prima - e I. A. L. Diamond, dopo) dalla struttura e dall’andamento impeccabili, fatte per piacere, con attori ai quali spesso non ha risparmiato caustici commenti, ma che ha trasformato in star o dai quali ha saputo tirar fuori il meglio. Star sono diventati, dopo l’incontro con lui, Jack Lemmon e Walter Matthau; e con lui hanno "recitato", se non per l’unica certamente per la prima volta, Marilyn Monroe, Tony Curtis e Kim Novak. Negli occhi, nella testa e nel sorriso, Billy Wilder aveva la magia del grande cinema classico, che aveva saputo ridimensionare ai dubbi e al progressivo logoramento dei miti degli anni Cinquanta; è stato, come Hitchcock e pochi altri, un autore chiave della moderna consapevolezza cinematografica. Anche se per lui si risolveva magari in una battuta: "La gente non ama sentirsi dire che puzza. Non è come a teatro. Per sette dollari e mezzo potete lanciare un messaggio. Per uno e venticinque, no". Sarà per l’aumento del prezzo del biglietto che le grandi commedie non si fanno più?
Da Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2002