
David Gelb firma i nuovi episodi di un lungo viaggio - spesso divertente, a volte commovente, sempre inaspettato - nella cultura e nella natura umana.
Turchia, Spagna, Stati Uniti, Thailandia. La nuova stagione della docu-serie Chef's Table, distribuita da Netflix dal 28 settembre, ha una missione precisa: raccontare le cucine "le cui storie sono state troppo a lungo dimenticate". Storie perdute perché nate ai margini, spesso per necessità, come quella di Cristina Martinez, chef e proprietaria del ristorante messicano South Philly Barbacoa, diventata - dopo un lungo trascorso da "irregolare" - paladina dei diritti degli immigrati negli Stati Uniti. Storie accantonate perché appartenute a un'epoca lontana, che pochi ormai sanno rievocare, come la storia della cucina tradizionale turca, gelosamente conservata nei ristoranti "etnografici" di Musa Dagdeviren a Istanbul. Storie dimenticate perché oscurate da narrazioni più brillanti - è il caso dello chef e parente d'arte Albert Adrià, da poco emancipatosi dal successo del fratello Ferran - o perché, semplicemente, richiedono ingredienti rari e preziosi. Ingredienti come il tempo, la pazienza e la natura: le basi imprescindibili della cucina thai slow food dell'attivista Bo Songvisava.
Firmata fin dalla prima stagione dal documentarista David Gelb, con uno spin-off di successo (Chef's Table: Pastry) e una sesta stagione al nastro di partenza, più che una serie "chic" sulla gastronomia Chef's Table è un lungo viaggio - spesso divertente, a volte commovente, sempre inaspettato - nella cultura e nella natura umana.
Una galleria di ritratti di uomini e donne (a partire da questa stagione la presenza femminile cresce), di attivisti, artisti, pionieri e visionari che hanno fatto della cucina di volta in volta una filosofia, un'opera d'arte, una religione, un campo di battaglia.