Candidato come Miglior Film agli EFA, il secondo lungometraggio della regista senegalese Mati Diop ha vinto l'Orso d'Oro alla 74a Berlinale.
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di Simone Emiliani
Da Parigi al Benin. È il percorso del viaggio di ritorno che fanno ventisei tesori reali del regno di Dahomey nel novembre del 2021. Assieme a molte altre, erano state saccheggiate dalle truppe francesi nel 1892. Dahomey - in corsa come Miglior Film e Miglior Documentario agli EFA 2024 (la cui cerimonia di premiazione sarà in streaming su MYMOVIES ONE) - di Mati Diop, vincitore dell’Orso d’oro alla 74° Berlinale, è da una parte un documentario essenziale che s’interroga sulla violenza del saccheggio del colonialismo ma acquista anche un valore fortemente simbolico, proprio per come mostra i festeggiamenti quando le statue sono tornate in Benin ma anche nel confronto tra gli studenti dell’Università di Abomey che si interrogano su quel periodo. Forse sta proprio qui il cuore di Dahomey, in questa lunga, complessa, contrapposizione di punti di vista differenti.
C’è chi ne sottolinea l’enorme importanza culturale, chi la vede invece solo come un’operazione di facciata (“restituire 26 opere su 7000 è un insulto”) da parte dei rispettivi governi del Benin e della Francia, rappresentati dai rispettivi Presidenti della Repubblica Patrice Talon ed Emmanuel Macron. Negli incalzanti primi piani di questo scontro dialettico, riemergono le cicatrici mai rimarginate, il dolore del passato ma anche l’irrequietezza del presente. Per questo Dahomey, concentrato ne suoi 67 minuti di durata, diventa un atto, anzi un gesto che affronta il cinema politico in chiave fantastica, che entra anche in misteriose zone oscure come nella voce-off di una delle statue che rimbomba come un eco, che ha l’effetto simile alla comparsa di uno spettro che riemerge dalla notte dei tempi e dà forma allo spirito di Dahomey in cerca di quella visibilità che il passato colonialista gli ha negato, sotterrandola.
Le forme del documentario classico (la catalogazione delle statue e le casse che le trasportano sulla nave, i dettagli ‘anatomici’ di alcune sue parti come quello di una mano, il significato della sua restituzione) sono subito frammentate, diventano il punto di partenza di una rappresentazione che lascia presto il posto all’evocazione, al sentimento di riappropriazione (o anche l’ingannevole illusione) della propria Storia nazionale da parte degli abitanti del Benin. Rispetto ad Atlantique, il suo esordio nel lungometraggio del 2019 con cui Mati Diop si è affermata vincendo il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes, il movimento è contrario. Lì il percorso era da Dakar verso la Spagna dove i protagonisti andavano alla ricerca di un futuro migliore, mentre in Dahomey c’è il ritorno in Africa. Il mare separa ancora la terra.
Cosa c’è al di là? Anche il cinema di Mati Diop va alla ricerca delle zone di invisibilità come nel movimento di una tenda nella notte, nelle voci dal profondo, nel piano sul volto di una statua che, come in un horror, potrebbe rianimarsi all’improvviso e riprendere forma come se le spoglie della sconfinata razzia del passato fossero ancora alla ricerca della sua vendetta. Come in Atlantique il mondo dei vivi dialoga ancora con quello dei morti. E se il primo lungo di Mati Diop è il risultato di uno sviluppo più ampio di un suo cortometraggio realizzato dieci anni prima, Dahomey invece è, già nella sua durata, in una terra di mezzo. C’è troppo materiale per un corto, ma tutto è calcolato perfettamente e l’impressione principale è che il film non sembra quasi aver subito particolari tagli di montaggio perché questi avrebbero creato una frattura nel flusso pressocché ininterrotto di tensione interna ma anche in una musicalità ipnotica.
Quella di Dahomey è la storia di orgoglio culturale che potrebbe cadere nelle trappole del didascalismo ma invece riesce ad evitarle in una forma intenzionalmente non compiuta ma che, al pari del cinema di Alice Rohrwacher va sempre alla ricerca di strade nuove, anche quelle più rischiose. L’uso metaforico delle immagini, anche se a volte insistite, guardano al cinema dello zio della regista Djibril Diop Mambety che con Ousmane Sembène è stato uno dei più grandi registi senegalesi. Mati Diop, dopo averlo dichiaratamente omaggiato nel mediometraggio Mille soleils in cui tornava sulle tracce di uno dei più grani film del regista, Touki Bouki del 1973, ne raccoglie ancora l’eredità soprattutto nel modo in cui lascia allo spettatore di ricostruire il proprio film. Perché in Dahomey prevalgono i tanti frammenti sparsi, le molteplici suggestioni, la luce stordente ma anche incantata, quasi soprannaturale che potrebbe arrivare dal cinema di Claire Denis da cui la regista è stata diretta come attrice in 35 rhums e Incroci sentimentali. Come il Benin nel suo rapporto col passato, anche il cinema di Mati Diop s’interroga sulla sua identità. Non ha il compito di fornire delle risposte, ma lasciare in sospeso le sue domande.