
Anno | 2024 |
Genere | Documentario, |
Produzione | Francia, Senegal, Benin |
Durata | 67 minuti |
Regia di | Mati Diop |
Uscita | giovedì 7 novembre 2024 |
Tag | Da vedere 2024 |
Distribuzione | Lucky Red, Mubi |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
MYmonetro | 3,88 su 11 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
|
Ultimo aggiornamento martedì 5 novembre 2024
Un film che segue il processo di restituzione da parte dello stato francese di opere d'arte provenienti da quello che è oggi lo stato del Benin. Il film è stato premiato al Festival di Berlino, ha ottenuto 2 candidature agli European Film Awards, ha ottenuto 1 candidatura a Cesar, a National Board, ha vinto un premio ai Lumiere Awards, ha ottenuto 1 candidatura a NSFC Awards, In Italia al Box Office Dahomey ha incassato 10,9 mila euro .
ASSOLUTAMENTE SÌ
|
Nel novembre del 2021 si concretizza la decisione storica da parte del governo francese di rimpatriare 26 artefatti storici del Regno di Dahomey, in quello che è oggi lo stato del Benin, acquisiti nel diciannovesimo secolo durante l'occupazione coloniale francese. Attraverso la voce di una delle statue, si segue il viaggio da Parigi fino all'arrivo a Cotonou, con tanto di inaugurazione della mostra celebrativa e di un dibattito universitario in cui diversi giovani si confrontano sulle difficoltà di come considerare il periodo coloniale e la valenza di questa restituzione.
Lucido e compatto nell'esecuzione, Dahomey conferma l'enorme talento di Mati Diop affrontando lo spinoso tema delle relazioni postcoloniali e in particolare la restituzione delle opere d'arte trafugate nel corso dei secoli dai paesi e dalle culture originali.
In poco più di un'ora di durata, Diop filma un diario del processo di riconsegna delle 26 opere che scende nel dettaglio - dalla classificazione e imballaggio delle statue a una carrellata sulle persone che sono ad accoglierle all'arrivo - e al tempo stesso eleva il dibattito verso questioni più ampie. La aiuta quella capacità di scovare il mondo interiore dietro all'inquadratura di ogni volto, che già aveva fatto la sua fortuna nell'evocativo Atlantique del 2019, suo esordio nel lungometraggio. Stavolta le tracce più narrative ed esoteriche sono confinate alla voce e alla prospettiva delle statue, che si interrogano sul loro posto nel mondo e nella storia mentre vengono trasportate da un paese all'altro. Un residuo di quello che sarebbe stato forse un film di finzione, se la restituzione promessa da Macron non fosse arrivata effettivamente nei tempi previsti. Così diventa cronaca e poi dibattito, grazie agli inserti filmati all'università di Abomey-Calavi; perché il ritorno è una celebrazione, ma il numero ventisei impallidisce di fronte alla stima di oltre settemila opere trafugate in totale. E sono i giovani stessi a prodursi in una conversazione dalle tante prospettive, sulla necessità di accogliere il progresso ma di non potersi ritenere soddisfatti. Lieve e ricco di sensibilità come ogni parte del cinema di Mati Diop, il documentario illumina il problema senza limitarsi al didatticismo: un'opera essenziale per tutte le culture impegnate nella formulazione di un'identità postcoloniale, e anche per quelle che il processo non lo hanno ancora avviato.