
Il maestro giapponese sembra, tra i registi in attività, l'unico in grado di rappresentare il mondo e le persone con una forma e un racconto universali e semplici. Al cinema.
di Roy Menarini
Se c'è un regista che sembra possedere le doti e il nitore di un maestro contemporaneo, questo è oggi Kore'eda Hirokazu. Non è semplicemente questione di giudizio, ovvero di quanto sia bravo - questione su cui, sebbene vi sia ampio consenso, si può pur sempre discutere. È piuttosto un fatto di atteggiamento, stile, umanità. Kore'eda sembra, tra i registi in attività, l'unico in grado di rappresentare il mondo e le persone con una forma e un racconto universali e semplici, in grado cioè di reinventare il cinema d'autore dell'epoca d'oro (dagli anni Quaranta agli anni Sessanta), quello che insegnava letteralmente a guardare e a pensare liberamente ad intere platee internazionali. Scriviamo questo perché Un affare di famiglia non andrebbe affatto confinato al circuito del cinema d'essai o allo zoccolo duro dei cinefili attrezzati a un film lento e profondo.
Sarebbe anzi lungimirante, da parte di tanti bravi e preparati docenti delle scuole italiane, scegliere il film di Kore'eda per una mattinata in sala con gli studenti, invece che sottoporre loro i soliti titoli buoni solamente per il dibattito in aula. I ragazzi, se messi nelle condizioni di saper aspettare e saper vedere, ne ricaverebbero un insegnamento profondo, tanto più utile e ricco quanto più articolato e spiazzante sembra il messaggio di Un affare di famiglia.
Essendo impossibile analizzare il film nel dettaglio senza svelare passaggi essenziali e preziosi della trama, ci limiteremo a dire che le svolte narrative, in particolare una, che intervengono a un certo punto, permettono allo spettatore di acquisire una improvvisa coscienza di quanto ha visto fino a quel momento, e a dover integrare le sue emozioni e convinzioni con nuovi schemi di pensiero e nuovi dati di realtà.
In questo modo, sottraendo certezze alla facile adesione emotiva della prima parte, Kore'eda compie un lavoro di pedagogia dello sguardo e del senso senza per questo voler impartire alcuna lezione didascalica e moralizzante. La scelta investe appieno il ruolo del cinema contemporaneo, che sembra aver rinunciato ad aspirare all'assoluto o - se lo fa, come Terrence Malick per esempio - a offrirsi per davvero a un pubblico ampio e universale. Un affare di famiglia riconcilia infatti il cinema con il suo ruolo di principale narratore del presente. Riesce nell'impresa con uno stile talmente trasparente e lineare da non far percepire in alcun modo la complessa architettura romanzesca e psicologica che lo sostiene dalle fondamenta.
Vale la pena enfatizzare la precisione antropologica dei volti e dei corpi messi in scena, in particolare il pater familias e la sua compagna, una coppia imprecisa e fallibile, al tempo stesso organizzata come un metronomo nella gestione della casa, dell'esistenza.
Proprio la rappresentazione dell'appartamento - una casa che suggerisce vincoli che scopriamo tutt'altro che prevedibili - riporta inevitabilmente ai classici del cinema giapponese, e a un respiro interno del racconto cui non eravamo più abituati.
Insomma, Un affare di famiglia, premiato per una volta con grande puntualità attraverso la Palma d'Oro al Festival di Cannes, si presenta come immediato classico. Nei prossimi mesi e anni sapremo se questa sensazione di altezza cinematografica sarà supportata dalla prova del tempo.